DONNE, STORIE, COSE DA IMPARARE
L’Italia è uno dei paesi europei dove la disparità di genere incide maggiormente
L’articolo 37 della nostra Costituzione dice che:
“La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e – a parità di lavoro- le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.
La classifica realizzata dal “World Economic Forum” sul divario di genere, evidenzia come l’Italia si trovi ancora alla 63esima posizione (salendo però dal 76esimo).
Il settore in cui il nostro Paese si trova più in difficoltà è quello della partecipazione economica, che vede una discesa nella classifica fino alla 114esima posizione.
Il cosiddetto “gender gap” ci racconta di differenze dei sessi – tra uomini e donne – a tal punto da rendere vero l’affermare che – in media – le donne incontrano maggiori difficoltà nel trovare lavoro, ricevendo una retribuzione inferiore e trovando numerosi ostacoli nell’accedere a ruoli di potere.
Questa situazione è alimentata da numerosi elementi che raccontano di una società dove c’è ancora molto da fare sulla parità di genere.
Il contesto culturale è permeato dalla logica secondo cui è la donna a doversi assumere le responsabilità dei figli e dei parenti malati. Quante volte abbiamo sentito dire che “la capacità di Cura è delle donne”.
È proprio questa retorica che spinge le donne fuori dal lavoro, e con meno possibilità di fare carriera, in confronto agli uomini, a parità di titoli.
Inoltre, troppo spesso frequenti, casi di molestia o violenza sul luogo di lavoro, fenomeno che disincentiva la partecipazione al contesto lavorativo.
Con questa premessa, e senza la presunzione di voler sciogliere i nodi in poche righe, andiamo indietro nel tempo per raccontare con 4 fotografie, alcune storie da cui trarre insegnamento per il futuro.
Rita Levi Montalcini
“Per la componente femminile del genere umano è giunto il tempo di assumere un ruolo determinante nella gestione del pianeta. La rotta imboccata dal genere umano sembra averci portato in un vicolo cieco di autodistruzione. Le donne possono dare un forte contributo in questo momento critico”.
Sono queste le parole di una delle scienziate più importanti della nostra storia, un esempio di emancipazione femminile.
È stata una vita donata alla scienza e non solo. Infatti, il suo impegno le ha fatto raggiungere il Premio Nobel per la Medicina, nel 1986, grazie alle scoperte fatte sul sistema nervoso.
Le sue ricerche hanno dato un contributo fondamentale nella ricerca su cancro, Parkinson e Alzheimer.
Il suo impegno però non è solo scientifico, ma anche politico e sociale.Nel 2001 fu eletta anche Senatrice a vita.
Rita Levi Montalcini ha sempre voluto difendere i diritti delle donne, consapevole delle difficoltà esistenti, ha finanziato diverse borse di studio a sostegno delle donne più in difficoltà, per stimolare l’emancipazione femminile nella società.
Cosa ci insegna la sua storia?
Sappiamo che quando Lei si iscrisse alla facoltà di Medicina, nella città di Torino, la sua scelta andava in contrasto con i pensieri dei genitori, che avrebbero preferito che lei si dedicasse alla costruzione di una famiglia. Ma la sua decisione non cambiò mai, Rita Levi Montalcini aveva un sogno, e non ha mai smesso di portarlo avanti. Ci è riuscita, ed oltre a diventare scienziata è oggi un esempio per tutte e tutti, e racconta un pezzo di storia di emancipazione del nostro Paese.
Anna Iberti
In tanti si sono chiesti chi fosse la ragazza sorridente che compariva nelle pagine dei giornali nel Giugno del 1946.
In un’intervista del giornale Repubblica si leggono queste parole:
“Quasi, quasi mi spiace che diventi pubblica questa cosa che per tanti anni è rimasta in famiglia” – è così che dice una delle figlie – “la mamma era un tipo molto riservato, parlava poco di questa cosa”.
Anna Iberti aveva 24 anni, e in quel momento lavorava nel quotidiano “Avanti!”.
Oltre all’immagine che possiamo farci di una Donna sobria ed equilibrata, è importante la storia che racconta la sua fotografia storica: il voto delle donne per la Repubblica.
Quel voto storico per l’Italia, una conquista femminista che afferma un nuovo protagonismo nella società politica italiana.
Lidia Menapace
Il suo vero nome è Lidia Brisca, nata a Novara il 3 aprile 1924 e prese parte alla Resistenza.
Nel 1964 è la prima donna eletta nel consiglio provinciale di Bolzano e anche prima assessora per gli Affari sociali e la sanità nonchè senatrice della Repubblica.
Abbiamo ricordato su Appunti di Pace la sua scomparsa nel dicembre del 2020 e ricordiamo una donna che ha combattuto contro il sessismo.
Con un suo slogan, ci rendiamo conto di quanto alcune sue iniziative politiche siano ancora molto attuali:
“Chiamatemi ex politica, ex parlamentare, ex insegnante, ma non chiamatemi mai ex partigiana. Perché io partigiana lo sarò per sempre”.
Sharbat Gula
Nel 1985 il National Geographic pubblicò una foto di Steve McCurry rappresentante ha fotografato Sharbat Gula, “la ragazza fiore d’acqua dolce” in lingua pashto diventò un simbolo una volta finita sulla copertina del National Geographic nel 1985.
Aveva meno di 12 anni quando Steve McCurry le scattò la foto diventata il simbolo di un Paese in conflitto come l’Afghanistan.
Nel 1984 il fotografo statunitense Steve McCurry, giunto nel subcontinente asiatico per documentare gli effetti dei monsoni, fu contattato dalla redazione del National che gli propose di scattare un fotoreportage nei vari campi di profughi allestiti lungo la frontiera afgano-pakistana. McCurry si recò nella provincia della Frontiera del Nord Ovest in Pakistan, e iniziò il proprio servizio fotografico. Qui, nel campo di Nasir Bagh, in una tenda resa “scuola” delle ONG locali, incontrò il volto di colei che sarebbe stata poi la donna di una delle foto più conosciute del mondo.
«Mi accorsi subito di quella ragazzina […]. Aveva un’espressione intensa, tormentata e uno sguardo incredibilmente penetrante – eppure aveva solo dodici anni. Siccome era molto timida, pensai che se avessi fotografato prima le sue compagne avrebbe acconsentito più facilmente a farsi riprendere, per non sentirsi meno importante delle altre»
Nel 2002 McCurry, si spinse alla ricerca di quella ragazza che aveva conosciuto anni prima. Dopo alcune ricerche vane, finalmente riuscì a trovarla. Era ormai madre di 3 figli e viveva in un’area particolarmente pericolosa dell’Afghanistan, interessata da intensi bombardamenti aerei, ma ciononostante si dichiarò disposta a raggiungere McCurry. Ed è così che si poté realizzare la seconda foto di Sharbat Gula, “la ragazza fiore d’acqua dolce” in lingua pashto.
Queste sono storie, diventate famose o rilevanti per diversi motivi, rese possibili, ma che purtroppo ci lasciano un’impressione comune: l’eccezionalità.
Viviamo ancora oggi in un contesto in cui alcuni episodi possono sembrare eccezioni e non normalità, sia in positivo sia in negativo. Chiediamoci se è ancora eccezione una donna che studia materie scientifiche e tecniche, chiediamoci anche, se è ancora normale per una donna Afghana non avere diritti.
Tutto questo evidenzia ancora una volta come tanta sia la strada da intraprendere contro le disuguaglianze.
Ci sono oggi alcuni strumenti che possono plasmare una società in cui le responsabilità familiari tra uomo e donna siano condivise, con pari opportunità di partecipazione e di leadership su tutti i livelli e in tutti i settori: congedo parentale paritario, che dovrebbe valere per entrambi i genitori e garantire così un’uguaglianza sostanziale; asili nido e servizi per la prima infanzia: sistema di quote che fissa una percentuale obbligatoria di presenza di entrambi i generi nelle attività lavorative.
Sono alcune cose da fare in fretta, su cui sensibilizzare e impegnarsi davvero, perché è il momento di prenderci Cura delle Donne, per fare diventare tutte le future storie, non eccezionali, ma straordinariamente normali.
di Damiano
Articolo molto interessante! Come è stato detto, se da una parte approfondire le storie di personalità come Rita Levi Montalcini o Lidia Menapace è fonte di ispirazione, dall’altra evidenzia come tutt’oggi siamo ben lontani dalla parità di genere…
Ricollegandomi alla questione del gender gap sul luogo di lavoro, è interessante citare il cosiddetto “soffitto di cristallo”, un termine coniato nel 1978 da Marilyn Loden: “E’ una metafora che si usa per indicare una situazione in cui l’avanzamento di carriera di una persona in una organizzazione lavorativa o sociale, o il raggiungimento della parità di diritti, viene impedito per discriminazioni e barriere di prevalente origine razziale o sessuale, che si frappongono come ostacoli di natura sociale, culturale, psicologica apparentemente invisibili anche se insormontabili”.
Tra i tanti motivi che ostacola la parità di genere nel mondo professionale, penso alla poca predisposizione da parte dei datori di lavoro a concedere la maternità. Uno studio pubblicato sulla rivista Labour Economics, che ha preso in considerazione le condizioni di assunzione in Germania, Svizzera e Austria, ha dimostrato che le donne sposate senza figli in età fertile hanno meno probabilità di venire assunte per ruoli part-time rispetto a donne più anziane o sposate e con figli grandi.
E questa situazione di disuguaglianza aumenta ancora quando la donna decide di diventare madre. Più sono i figli, maggiore è il divario nei tassi di occupazione maschile e femminile. Secondo un rapporto dell’ISTAT, in Europa nel 2019 il tasso di occupazione per le donne senza figli è del 67% mentre è del 75% per gli uomini. Con un figlio, il tasso aumenta al 72% per le donne e al 87% per gli uomini. Per le donne con due figli il tasso rimane quasi invariato al 73% mentre quello degli uomini aumenta al 91%. Questi dati dimostrano che, a parità di condizioni, per una donna avere dei figli ha delle conseguenze maggiori sulla vita lavorativa rispetto a quelle che potrebbe avere su un uomo.
Per arginare questo problema è necessario sia implementare i servizi pubblici in sostegno delle famiglie, sia combattere la concezione radicata che la donna abbia una “predisposizione naturale” all’accudimento, che fa sì che, in mancanza dei servizi sopra citati, sia lei a dover scegliere tra maternità e carriera.