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A CENTO ANNI DALLA NASCITA DI DON LORENZO MILANI: L’EDUCAZIONE, LA SCUOLA DI BARBIANA E L’OBIEZIONE DI COSCIENZA

15 Ottobre 2023
A CENTO ANNI DALLA NASCITA DI DON LORENZO MILANI: L’EDUCAZIONE, LA SCUOLA DI BARBIANA E L’OBIEZIONE DI COSCIENZA

Don Lorenzo Milani è stato ed è ancora oggi una figura che apre la strada verso snodi di pensiero che toccano diversi argomenti: dai nuovi metodi di didattica all’importanza dei dialetti e della lingua, fino alle riflessioni sulle diverse classi sociali. Grazie alle sue vecchie fotografie in bianco e nero diffuse sul Web, possiamo raffigurare nella nostra mente un uomo dallo sguardo assorto e concentrato, circondato da un gruppo di scolari con libri e quaderni in mano. Alcuni di loro stringono la sua mano, altri gli gravitano attorno seguendolo con un passo più consapevole, altri ancora lo ascoltano dedicandogli tutta la loro attenzione. 

Incuriosisce però la descrizione che fa la scrittrice Anna Maria Ortese del suo viso, dicendo che questo rivela un profondissimo disprezzo, per nessuno in particolare, ma per qualcuno e qualcosa di ignoto.

Le origini e l’arrivo a Barbiana

Nato come Lorenzo Milani Comparetti, Don Milani è stato un priore rivoluzionario che riuscì a raccogliere attorno a sé i figli dei contadini e degli operai e tradusse tutta la sua attività nella didattica e in una nuova riflessione sociale. Nacque il 27 maggio 1923 a Firenze da una famiglia ricca e colta. Dal ramo paterno prese le origini dell’alta borghesia fiorentina, da quello materno un’ascendenza russo-ebraica e mitteleuropea. In gioventù, si ritrovò spesso a provare rabbia e colpevolezza per quella cultura borghese di cui era erede. Si infliggeva infatti delle colpe immaginarie e voleva pagarle tutte quante. 

Pietro Citati, nell’introduzione al libro “Scuola di Barbiana Lettera a una professoressa” pubblicato per Mondadori, scrive “Come San Francesco (a cui non assomigliava), voleva imitare Gesù: diventare Gesù nel cuore indifferente del ventesimo secolo. Anche lui, come Gesù, era venuto a portare non la pace e la quiete, ma il fuoco, la spada, la violenza.” 

Nel 1943 entrò tardivamente in seminario, dopo aver studiato a fondo i Vangeli e i testi liturgici e dopo aver promesso ad un sacerdote moribondo che avrebbe preso il suo posto. Nel luglio del 1947 venne nominato cappellano a San Donato di Calenzano, qui insegnò la dottrina ai ragazzi e iniziò a fare la scuola, quella che divenne la sua vera vocazione non appena approdò a Barbiana, il 7 dicembre 1954, un piccolo borgo sperduto sui monti della diocesi di Firenze. Barbiana era un piccolo paese del Mugello, all’epoca contava centotredici abitanti, nella maggior parte dei casi si trattava di montanari costretti a vivere in un luogo senza luce né telefono, ma don Milani venne ben accolto da tutti. Qui conobbe i poveri e soprattutto gli ultimi: i contadini e gli operai. Ed è proprio a Barbiana che don Milani sviluppò la sua vera missione, non quella di predicare, bensì quella di fare una scuola che era “la pupilla destra del suo occhio destro”. 

In una stanza illuminata solo da una candela, insieme ai suoi scolari leggeva libri di ogni genere, soffermandosi sempre a sezionare ogni parola incontrata. 

A poco a poco abbiamo scoperto che questa è una scuola particolare: non c’è né voti, né pagelle, né rischio di bocciare o di ripetere. […] Questa scuola dunque, senza paure, più profonda e più ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi a venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé… Prima l’italiano perché sennò non si riesce a imparar nemmeno le lingue straniere. Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare fra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre.

Negli anni della scuola a Barbiana, dal 1954 al 1967, don Milani provò a instillare saggezza e pensiero nelle giovane menti, insieme ad otto ragazzi scrisse “Lettera a una professoressa”, uno scritto collettivo in cui gravitavano anche altri ragazzi che non potevano frequentare la scuola di mattina perché andavano a lavorare e poteva contribuire al testo solo di domenica.

Lettera a una professoressa

“Lettera a una professoressa” è un manifesto collettivo pubblicato a Firenze nel 1967, un mese prima della scomparsa di Don Milani. Si tratta del risultato di un anno di attività a Barbiana che presto è diventato la premessa di quel grande movimento che si tradusse nel Sessantotto italiano.  Il libro appare come un lungo saggio redatto dagli allievi della scuola di Barbiana, guidati e supervisionati da Don Milani. L’intento degli scritti, simili per alcuni versi a dei diari, è quello di lanciare un monito alle scuole pubbliche e agli insegnanti a non lasciare indietro i figli degli operai e dei contadini. 

A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era negato per gli studi”. Scrivevano i ragazzi sui diari.

Molti tra gli allievi di Don Milani erano ragazzi mandati via da scuola per la loro scarsa dedizione allo studio, per le assenze, per la loro poca dialettica. Don Milani insegnava loro che la scuola era aperta a tutti, non esistevano privilegi per ricchi, nessuno doveva rimanere indietro e chi aveva difficoltà doveva essere accompagnato al livello degli altri, senza umiliarlo. Infatti appare chiara la contrarietà del priore alle bocciature. Secondo lui gli insegnanti delle scuole dell’obbligo dovevano smettere di bocciare gli studenti, facendolo si toglievano dai piedi questi ‘analfabeti’ e la loro istruzione non era più un loro problema. Ma una volta bocciati, gli analfabeti restavano tali perché nessun altro li prendeva a cuore per reintrodurli nella scuola. Nelle classi prime si bocciava molto di più, poi le aule si snellivano perché chi non passava l’anno non lo ripeteva, bensì andava a lavorare nei campi prima di finire la scuola dell’obbligo. A scuola restavano solo i più bravi. In “Lettera a una professoressa” si fa infatti riferimento anche al lavoro minorile, e nonostante l’esistenza della legge del 29 gennaio 1961 (“Sulla tutela del lavoro delle donne e dei fanciulli”), tutti facevano finta che non esistesse. In ogni caso, molti giovani non potevano frequentare le scuole dell’obbligo perché non ve n’erano nel proprio paese, e raggiungere quelle in città richiedeva una spesa economica non indifferente per una famiglia contadina. 

“Lettera a una professoressa” rappresenta quindi una denuncia collettiva al sistema di insegnamento degli anni ‘50 indirizzata non solo ai vertici statali ma anche agli educatori, che spesso si prendevano il diritto di comunicare alle famiglie di classe sociale bassa che i propri figli non erano fatti per la scuola ed era meglio se li mandavano a “lavorare la terra”, il loro unico destino. Nella lettera si leggono degli atti d’accusa nei confronti della scuola tradizionale, paragonata a “un ospedale che cura i sani e respinge i malati” dal momento che i bocciati venivano lasciati indietro mentre si valorizzavano solo coloro che provenivano da famiglie benestanti.

Ma “Lettera a una professoressa” e è anche molto altro. In questi diari si assiste al racconto di una vera e propria rivoluzione del sistema educativo fatto da Don Milani, a partire dall’organizzazione giornaliera della scuola. Così racconta un allievo della scuola di Barbiana: “La classe: né banchi, né cattedra né lavagna. C’erano grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. Una copia per libro, ad insegnare erano i ragazzi più grandi, di 16 anni. Non c’era ricreazione, la domenica si andava ma a nessuno pesava, il lavoro era peggio.” 

La scuola di Barbiana infatti restava aperta ancora nelle ore dopo il lavoro nei campi, impegnava i ragazzi 7 giorni su 7 e il programma era condiviso da tutti, ciascuno poteva proporre idee al maestro. La scuola di Barbiana rappresentò infatti un’esperienza sperimentale che diede adito ad ampi dibattiti sulle innovazioni da poter apportare nella pedagogia. Se al principio fu una lettura sconcertante, pian piano iniziò a stimolare le menti delle persone fino a raggiungere l’approvazione da una fetta di studiosi e professionisti. 

Chi è don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, la sua storia in dieci punti  - Famiglia Cristiana

L’accusa di apologia di reato e la riflessione sull’obiezione di coscienza

Nel 1965 Don Milani viene accusato di apologia di reato per un suo scritto intitolato “Lettera ai cappellani militari”, diffuso sulla rivista del PCI “Rinascita”. La lettera ebbe origine proprio tra i banchi della scuola di Barbiana e finì presto in tribunale. 

I pomeriggi nella scuola di Barbiana venivano spesso occupati con la lettura dei giornali, capitò quindi che Don Milani, insieme ai suoi ragazzi, trovò un comunicato stampa del 6 febbraio ‘65 firmato dai cappellani militari in congedo della Toscana, riunitisi nell’anniversario della conciliazione tra la Chiesa e lo Stato italiano. Nella nota, i cappellani esprimevano il loro omaggio ai caduti per l’Italia, considerando un “insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta ‘obiezione di coscienza’” che, secondo loro, era espressione di viltà. Con questo commento, i sacerdoti si riferivano ad un gruppo di giovani italiani obiettori di coscienza che erano finiti in carcere per aver rifiutato le armi e per non tradire i loro ideali di nonviolenza. Il priore, dopo essersi accorto che i suoi allievi erano rimasti sbalorditi dalle parole dei cappellani, volle dimostrare loro cos’era la libertà di parola e di opinione. Così disse ai suoi ragazzi di prendere i libri di storia e insieme scrissero una lettera di risposta contenente concetti fondamentali che uniscono cinquant’anni di storia italiana.

Il priore di Barbiana non accettò che i cappellani avessero insultato gli obiettori che, al contrario di loro, avevano incarnato “un’eroica coerenza cristiana”. “Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. Nella sua reazione, Don Milani si soffermò sul concetto di Patria e su come i conflitti della storia abbiano sempre portato a offendere le Patrie degli altri per difendere la propria. Il priore di Barbiana, mosso dai pensieri dei suoi studenti, sostenne invece che l’unica guerra che non offende altre patrie ma allo stesso tempo difende la propria è quella partigiana. Quindi si domandò se a difendere la Patria fossero più gli obiettori o chi combatte con le armi. Accusò i cappellani di non avere alcuna elementare nozione sul concetto di obiezione di coscienza. E li invitò ad educare i soldati all’obiezione e non all’obbedienza, soprattutto se obbedienza significa bombardare i civili, usare le armi atomiche, chimiche, le torture, ecc.

Don Milani fu rinviato a giudizio per la lettera ai cappellani insieme al direttore di Rinascita, Luca Pavolini. Ma, gravemente malato fin dal 1960, il priore di Barbiana non riuscì a partecipare al processo a causa dei primi sintomi del tumore. Il 28 febbraio 1967, alcuni mesi dopo la sua morte, Don Milani e Pavolini vennero condannati per il “reato all’obiezione di coscienza”.  Il processo a Don Milani fornì una visione limpida di quello che è stato il cammino dell’obiezione di coscienza in Italia, basato sulla concezione della democrazia intesa come nonviolenza e partecipazione.

Per la Redazione

Elisabetta Di Cicco

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