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UNA POLEMICA DI DIGNITA’

18 Ottobre 2022
UNA POLEMICA DI DIGNITA’

«Si dice che non si conosce veramente una nazione
finché non si sia stati nelle sue prigioni.
Una nazione dovrebbe essere giudicata da come tratta
non i cittadini più prestigiosi
ma i cittadini più umili.»

Nelson Mandela

Con questo articolo noi di Appunti di Pace vorremmo cercare di capire meglio in che modo il carcere così come è pensato e strutturato oggi in Italia possa essere un contesto riabilitante e lo facciamo a partire da uno studio[1] sugli effetti a livello psicologico della permanenza per lunghi periodi in Antartide. Condotto da un gruppo di ricerca dell’Università di Houston, guidato dalla psicologa Candice Alfano, ha sviluppato una Mental Health Checklist.
Sono stati coinvolti 110 partecipanti, con età tra i 22 e i 70 anni, divisi tra due stazioni di ricerca, una sulla costa (McMurdo) e una nell’entroterra (Amundsen-Scott South Pole). Lo studio prevedeva sia la compilazione mensile di un questionario sia esami per individuare cambiamenti nei disturbi fisici e nei biomarcatori di stress e il monitoraggio è durato nove mesi, durante l’inverno antartico.

I risultati suggeriscono che i cambiamenti delle emozioni negative siano dipendenti e legati a fattori individuali, personali e situazionali, mentre il discorso sulle emozioni positive è più complicato: il loro calo rappresenta un’esperienza universale in ambienti Ice e, inoltre, si evidenzia che i partecipanti allo studio, con il passare del tempo, usavano sempre meno strategie efficaci per regolare le loro emozioni positive.

Questo studio è stato pensato anche per avere un modello dell’effetto della permanenza nello spazio per la salute mentale. Infatti, sono stati evidenziati alcuni aspetti in comune tra la vita di un astronauta e quella di un ricercatore in un ambiente Ice: ambiente estremo, alterazione del ciclo notte-giorno, confinamento in spazi ristretti, mancanza di privacy, isolamento e allontanamento dagli affetti.

Questi principali fattori di stress a me sembra che valgano anche per chi si ritrova all’interno di un carcere (a parte, forse, l’ambiente estremo in senso prettamente “naturale”).


E la domanda che sorge spontanea anche davanti ai risultati di un simile studio è: come si fa a considerare un’esperienza simile riabilitante?

Infatti, non va dimenticato che il carcere non ha solo un carattere punitivo, nella nostra giurisdizione, ma ha anche una funzione riabilitativa e rieducativa, il cui fine dovrebbe essere il reinserimento sociale.

Eppure, le esperienze di supporto psicologico in carcere sono poche e le testimonianze[2] che si trovano raccontano spesso di troppi utenti, poco tempo e incredibili difficoltà amministrative.
La scelta di parlare della situazione psicologica nelle carceri nasce dalla volontà di approfondire e dunque rispondere, all’appello dell’Associazione Antigone, una onlus che si occupa di giustizia, carceri, diritti umani e prevenzione della tortura dalla fine degli anni Ottanta.

Infatti, quest’anno è particolarmente complicato e delicato per chi lavora in questo ambiente: dall’inizio dell’anno e fino al 7 ottobre 2022 sono stati 66 i suicidi avvenuti all’interno delle carceri in Italia. Sono numeri che non hanno precedenti negli ultimi anni e sono estremamente allarmanti: l’Italia è un paese con un tasso di suicidi bassi, con un indice tra i più bassi in Europa, ma è decimo se si considerano solo quelli avvenuti in carcere.
Non si può ridurre tutto ai numeri, in questi casi, poiché equivarrebbe a sminuire le singole storie che sono dietro questi atti. Però le statistiche servono, o potrebbero servire, ad attirare l’attenzione, a individuare l’esistenza di una questione che andrebbe affrontata.
Il dossier[3] di Antigone (che si ferma al mese di agosto) racconta alcune di queste storie, cercando di non violare la privacy o l’identità di nessuno. È una lettura molto interessante, anche perché l’immaginario collettivo tende ad evitare il più possibile il pensiero della prigione o, quando ci pensa, deumanizza e allontana, andando a rinforzare una serie di pregiudizi che a loro volta potrebbero causare ulteriori disagi psicologici simili a quelli da cui siamo partiti.

Purtroppo, non possiamo fare molto, se non parlarne e portare avanti le proposte di chi lavora in e con questi ambienti. Ad esempio, si parla di riconoscimento al diritto all’affettività, della riduzione del sovraffollamento nelle celle, dell’opportunità di ricevere formazione e di lavorare, di ridurre il ricorso alla misura di isolamento come misure interne per migliorare la condizione umana e psicologica all’interno di un carcere; ma anche che vengano usate il più possibile misure alternative e percorsi alternativi, soprattutto davanti ai reati minori.
Possiamo anche scegliere di non restare indifferenti, perché se davvero si vuole provare a costruire un mondo di pace e nonviolenza, di rispetto e di diritti, non ci si può, e non ci si deve, scordare degli ultimi, di chi ha sbagliato, di chi ha commesso reati spesso minori.

Al tempo stesso, però, è importante non appropriarsi di esperienze altrui. La scelta di parlare della condizione psicologica e di suicidi in carcere nasce dalla voglia di segnalare un problema, non di portare ipotesi di motivazioni per l’atto di un singolo.
Come ha detto Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’Associazione Antigone, davanti a una richiesta di spiegazioni: «Non voglio dare una risposta netta, perché sarebbe come mancare di rispetto a quelle persone, perché la scelta di suicidarsi è sempre una scelta complessa che non può essere ridotta a qualcosa di semplice.»

Per approfondimenti :

https://www.facebook.com/groups/575125690936018/?mibextid=zpN4Kr

di Irene Solaini


[1] https://www.media.inaf.it/2021/04/21/spazio-salute-mentale/

[2] https://www.nuovarassegnastudipsichiatrici.it/volume-21/difficolta-lavoro-psicologico-carcere-contesto-iatrogeno

[3] https://www.antigone.it/upload/Dossier_suicidi_carcere_2022.pdf

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