DUE LIBRI DI GUERRA CHE ALIMENTANO LA PACE, OLTRE LA PROPAGANDA
Nel 2017 Vasco Brondi (Le luci della centrale elettrica), nel disco Terra e nella canzone Stelle marine, ascoltava in una conchiglia la voce della poetessa Emily Dickinson e di alcuni suoi versi parafrasati: “l’acqua si impara dalla sete/ la terra dagli oceani attraversati/ la pace dai racconti di battaglia”.
Forse è vero che non si può comprendere appieno qualcosa, se non si sperimenta il suo opposto. Ma quando si tratta di un contrario fatto di morte, distruzione e lacerazione, non è raccomandabile evocare i demoni del conflitto armato per imparare la lezione. La poetessa nel verso originario parla della pace insegnata dalla “battaglia”, Vasco Brondi ha parafrasato felicemente parlando di “racconti di battaglia”, ricordando un po’ quello che diceva Marcello Mastroianni in un film di Francesca Archibugi (Verso sera): “le esperienze non si devono fare tutte, qualcuna si può anche leggere”.
Dovremmo probabilmente ricordarlo noi europei (in particolar modo quelli di occidente), vissuti in assenza di guerra sul continente dal Secondo dopoguerra in poi e oggi a rischio di trattare la guerra con eccessiva disinvoltura, come qualcosa di necessario e risolutivo, soprattutto perché combattuta in altri luoghi, più o meno lontani ma comunque ancora alieni.
In un’altra canzone più celebre di Francesco De Gregori, consacrata da Vasco Rossi (Generale, 1978) i soldati ritornano a casa e non pensano più che “la guerra è bella/ anche se fa male”. È un brano sulla ricorrenza letteraria che, da Hemingway in poi, affronta il tema dell’odissea nella guerra moderna.
Le voci, ora sul treno che li porta via dalla fornace, cantano disincantate dell’idea propagandistica che la aveva mosse, quella della guerra necessaria o addirittura “igiene del mondo”, nel ricordo di tutti quelli morti sul campo, come i cinque figli della contadina curva sui campi, dietro la collina.
La guerra giusta e inevitabile è da sempre un argomento della propaganda bellica in tutte le latitudini e in tutti i tempi, a cui si contrappone la tragica verità della distruzione, della follia e delle atrocità vissute e agite.
Per comprendere l’orrore della guerra, senza doverla sperimentare e per tenerla lontana dai desideri personali e collettivi, può essere utile oltre che appassionante, leggere Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu e Il Sergente nella neve di Mario Rigoni Stern.
Emilio Lussu (1890 – 1975), è un giovane studente sardo di diritto (in trasferta a Roma, Torino e poi di rientro nella sua Cagliari, è nato poco lontano, a Armungia) che in fase di discussione di laurea, polemizza con il professore di diritto pubblico Forti che si è dichiarato neutralista e quindi contrario all’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale.
Lussu partirà quindi con forti sentimenti interventisti verso il fronte con la sua brigata, che sarà presente prima sulla Bainsizza e poi, dopo Caporetto, al passaggio del Tagliamento, sull’Altopiano di Asiago, sul Piave e a Vittorio Veneto. Il suo unico fratello, insieme a tutta la sua divisione, sarà catturato e spedito in campo di prigionia e non riuscirà a sopravvivere dopo la fuga.
Lussu diventa un testimone diretto dell’inferno con uno sguardo da inviato di guerra, con il ruolo prima di tenente e poi di capitano, e ne scriverà nel suo Un anno sull’altipiano che uscirà alla fine dell’altra grande guerra, nel 1945.
Al termine della vicenda bellica tornato a casa, fonderà nel 1919 insieme ai suoi soldati ridiventati contadini, operai, artigiani, professionisti e studenti, la formazione autonomista e democratica del Partito Sardo D’Azione, con cui sarà eletto nel parlamento del Regno d’Italia, assistendo da oppositore della prima ora alla nascita del Fascismo, a Roma e a Cagliari, raccontandone la genesi nella sua Marcia su Roma e dintorni (prima pubblicata sulla stampa straniera e poi come volume nel 1945). Combatterà ancora nella Guerra civile spagnola, nella Resistenza francese e in quella italiana, per convincersi definitivamente che il valore principale dell’azione politica è la costruzione della pace. Sarà Costituente e parlamentare della Repubblica.
In Un anno sull’altipiano racconta con verità, senza compiacimenti o retorica, il più grande massacro di militari della storia. È un testo con poche velleità letterarie, ma efficace per chiarezza, asciuttezza e capacità di sguardo. Racconta della lucida follia delle alte gerarchie militari, delle alterazioni di chi dovrebbe guidare i soldati e invece li conduce al macello. Il libro è un esempio di scrittura essenziale, ma molto vivida, con grandi immagini e grandi dialoghi.
Anche gli odori della guerra di trincea sono tridimensionali, in particolare (come nota Davide Longo della Scuola Holden), quello degli alcolici, in particolare di cognac, di cui vengono imbottiti i soldati al momento dell’assalto. Gli stessi capiscono che l’assalto è vicino, quando vedono arrivare i muli carichi di botti. Lo stesso odore arriva anche dalla trincea nemica, insieme alla stessa disperazione.
Quando un alto ufficiale offre da bere a Lussu che rifiuta, deve appuntarsi incredulo il suo nome su un taccuino, per ricordarsi di aver incontrato un “tenente astemio”, “- appartiene forse lei a qualche setta religiosa? – mi chiese”.
Alcune immagini non si disperdono facilmente, come quella dell’ufficiale eroso dalla follia, che entra in mensa militare a cavallo. Così come quella dei compagni che muoiono (“Ma il terribile è che hanno verniciato la stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci conducono al massacro come delle pecore”) e dei soldati solidali che si ribellano compatti ai comandi assurdi di ufficiali esaltati (“Che ne sarebbe della civiltà del mondo, se l’ingiusta violenza si potesse sempre imporre senza resistenza”?).
Ad Asiago, sull’Altopiano raccontato da Lussu, sarebbe nato, tre anni dopo la fine della guerra nel 1921, Mario Rigoni Stern, bambino vivace, figlio di una famiglia di umili allevatori, arrivato solo alla licenza di avviamento al lavoro. Diventerà in maniera più che sorprendente uno scrittore.
In quella terra, il ragazzo Rigoni Stern, raccoglieva bossoli di proiettili nelle trincee scavate dalla recente Grande guerra, cantando “Faccetta nera”. Non immaginava che la vita lo avrebbe portato a scrivere anche un diario letterario radicato nella realtà della imminente Seconda Guerra Mondiale.
Il Sergente nella neve uscirà nel 1953, con un sottotitolo presente solo nella prima edizione che recitava “ricordi della ritirata in Russia”.
Il sergente maggiore degli alpini Mario Rigoni, che aveva già combattuto in Grecia e Albania, venne catturato al Brennero dopo l’8 settembre e imprigionato nel lager 1 b in Masuria (nella Prussia occidentale). Qui scriverà la prima stesura del Sergente, in cui sarà la voce narrante che racconta le vicende tragiche della disfatta della campagna italiana di Russia, quando l’esercito viene sbandato per l’imponente controffensiva nemica nell’inverno 1942-43.
Il sergente Rigoni prima resta a coprire la ritirata dei suoi e poi si ritrova al comando di 70 alpini per guidarne la disperata ritirata a piedi dalla steppa verso l’Italia, senza più ordini e senza più comunicazioni, per fuggire dalla guerra, dalla morte, dal gelo e dagli stenti.
Come ha rilevato lo scrittore Eraldo Affinati, curatore della sua opera, la lingua di Rigoni Stern è una lingua di sensi, di suoni, di odori e di esperienze vive. Già dall’incipit del libro è chiaro: “Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato”. Il sergente Rigoni fa sempre più l’esperienza dell’estremo e prende consapevolezza sempre maggiore della situazione in cui si trova (“il nemico non poteva essere disprezzato, eravamo noi gli invasori”), fino a scoprire nel fango l’ingiustizia della storia, fino a scaricare per rabbia due caricatori di proiettili a vuoto, piangendo di indignazione.
Sono memorabili le scene in cui gli alpini vengono accolti nelle case russe per un pasto caldo e l’episodio di quando in una casa il sergente si ritrova faccia a faccia con soldati russi che restano attoniti con i cucchiai sospesi. Mangiano poi insieme, in una muta tregua umana, da cui il sergente si congeda ringraziando. E nel lungo viaggio, è terribile l’incontro con i tanti morti nella neve, tante donne e bambini, che esistono anche se si distoglie lo sguardo.
Nell’ultimo suo libro, L’ultima partita a carte (2002), Rigoni Stern ricorderà la sera prima della partenza per la Russia da Torino, quando lo zio Toni, insieme ai suoi colleghi operai del Lingotto avevano già indicato al giovane e ignaro soldato la trappola verso cui stava andando, a lui invisibile dietro la nebbia delle sue fantasie romantiche, della retorica guerresca, della propaganda, prima della sua amara consapevolezza che verrà.
Il sergente troverà il suo riscatto nel lager, quando insieme a tanti altri soldati rifiuterà di poter mangiare, di poter essere libero e di poter rientrare in Italia arruolandosi nella Repubblica Sociale Italiana di Salò.
Chi cerca di convincere i soldati imprigionati e affamati, anche con la forza del cibo fumante dall’altra parte del filo spinato, dice “voi che avete dato gloria alla Patria, combattendo in Francia, in Grecia, in Russia fate un passo avanti!” Rigoni Stern scrive “facemmo un passo indietro e questa fu la risposta”.
Rigoni Stern tornerà in Italia dal campo, sempre a piedi un passo per volta, rientrando nella sua casa sull’altipiano, pochi giorni dopo il 25 aprile 1945.
Per la Redazione
Fabrizio Ferraro
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