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I GENOCIDI NELLA STORIA RECENTE DELL’UMANITÀ SUCCESSIVI A QUELLO DEGLI EBREI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

25 Gennaio 2024
I GENOCIDI NELLA STORIA RECENTE DELL’UMANITÀ SUCCESSIVI A QUELLO DEGLI EBREI DURANTE LA SECONDA GUERRA MONDIALE

La risonanza avuta da alcuni grandi eventi storici ha fatto sì che questi siano andati ad oscurare altri episodi diventati, per forza di cose, meno conosciuti. E questa è la sorte accaduta a molte storie di genocidi che hanno attirato di meno l’interesse pubblico. Ma la storia mondiale è piena di tragici episodi che hanno visto popoli, etnie e minoranze sterminate da un oppressore. Eppure sembra che sia ancora necessario ribadire che non esistono genocidi di serie A e di serie B. A dare una spinta a questa riflessione, è la nota diramata il 19 gennaio 2024 dal Comitato Nazionale ANPI che, in una frase infelice per la commemorazione dell’Olocausto, ha dichiarato quanto segue:

“È un errore gravissimo mettere sullo stesso piano la Shoah e altre, pur terrificanti, vicende di oggi”. 

E il fatto che a fare questa dichiarazione sia stata un’associazione che dovrebbe portare in alto il vessillo della Resistenza non ci fa ben sperare sulla piena comprensione di ciò che sia la memoria storica. Ecco perché è ancora necessario ricordare le atrocità commesse dalle dittature e dagli oppressori contro popolazioni con una cultura e un’identità che spesso è stata dilaniata in favore di gruppi predominanti, con appoggi più potenti.

L’Olocausto rappresenta uno tra i più gravi crimini internazionali della storia che ha gettato una scia di sangue per tutto il XX secolo. Nonostante l’orrore dello sterminio, che porta dietro di sé la morte di 6 milioni di ebrei, 4 milioni di slavi, 3 milioni di prigionieri di guerra sovietici, 2 milioni di politici, ma anche 200 mila rom e 250 mila disabili, è importante ricordare anche gli altri genocidi che si sono succeduti nella storia.

Genocidio in Cambogia – tra il 1975 e il 1979

Tra il 1976 e il 1979, quando il nome ufficiale della Cambogia era Kampuchea Democratica, si assistette ad un’epurazione del popolo cambogiano e in particolare delle minoranze etniche e religiose. Il 17 aprile 1975 i Khmer Rossi guidati da Pol Pot entrarono nella capitale Phnom Penh e diedero inizio ad un regime di stampo comunista. I khmer rossi sotto la dittatura di Pol Pot volevano instaurare nel paese una repubblica socialista agraria per riportare il paese al suo “passato mitico” dell’impero khmer.

Per farlo svuotarono le città e deportarono molte persone nei campi di lavoro, ma qui in realtà avvennero delle esecuzioni di massa: i cambogiani morivano per malattie, malnutrizione e uccisioni. Questo accadde perché nella loro ideologia, gli khmer volevano attuare una purificazione della popolazione per tornare agli antichi splendori del passato. Nei campi di tortura arrivavano anche gli oppositori, che spesso venivano torturati insiemi alle loro famiglie e giustiziati nelle fosse comuni. All’interno dei campi venivano effettuati anche degli esperimenti medici praticati dagli stessi khmer sugli ostaggi, simili a quelli perpetrati dai nazisti.

Nel 1979 i vietnamiti entrarono in Cambogia e misero fine al genocidio con la sconfitta dei khmer rossi. Solo nel 2014, dopo l’istituzione del Tribunale speciale della Cambogia nel 2001, i due politici cambogiani Nuon Chea e Khieu Samhan furono condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità.  Ma gli autori materiali dello sterminio furono dei giovani di provenienza contadina che vennero manovrati e incattiviti da una ristretta élite di dirigenti politici di stampo stalinista. Questi venivano costretti ad arruolarsi per compiere omicidi di massa. A morire furono tra le 800.000 e le 3.300.000 persone. Le torture perpetrate dalla dittatura di Pol Pot in quegli anni furono atroci. Alcuni sopravvissuti hanno raccontato che molti prigionieri tentavano il suicidio utilizzando dei cucchiai, altri venivano torturati con utensili da contadini.

Genocidio curdo dell’Anfal – Dal 12 marzo 1986 al 7 giugno 1989 

Si tratta dell’omicidio di massa dei curdi avvenuto nel Kurdistan iracheno durante le ultime fasi della guerra Iran-Iraq. L’evento ha visto lo sterminio dell’opposizione curda da parte dell’esercito iracheno, a morire furono tra le 50.000 e le 182.000 persone di etnia curda. La repressione era guidata dal generale Ali Hassan Abd al-Majid al-Tikritieh, cugino di Saddam Hussein e soprannominato “Alì il Chimico”. Alì Hassan è stato ministro della difesa, dell’interno e capo dei servizi segreti del governo iracheno. Tra gli anni ’80 e ’90 adottò delle misure repressive tra cui la deportazione forzata di alcune popolazioni e anche l’assassinio di massa, mediante l’uso di armi chimiche. Nel corso della campagna militare al-Anfal del 1988, ordinò l’uso di gas cianidrici sulla città di Halabja uccidendo tra le 3.200 e le 5.000 persone. Nel 2003 venne accusato di crimini di guerra e crimini contro l’umanità e venne condannato a morte proprio per ciò che ordinò nella campagna militare di al-Anfal.

Genocidio del Ruanda – 7 aprile-15 luglio 1994

Dal 7 aprile al luglio 1994 in Ruanda ha avuto luogo uno dei genocidi più sanguinosi del XX secolo. Per circa 100 giorni vennero massacrate circa 500.000 persone, prevalentemente persone di etnia Tutsi e gli hutu moderati, per mano dell’esercito regolare e degli interahamwe (milizia paramilitare hutu). A far esplodere il conflitto che portò alla morte di tante persone fu la difficile convivenza tra Hutu (per lo più agricoltori, sovrintendevano al culto religioso) e Tutsi (allevatori, erano l’aristocrazia della società, possedevano la terra e il bestiame). La coesistenza tra i due popoli portò ad un odio interetnico nonostante la fede cristiana condivisa.  

Il Ruanda era stato unificato nel XVI secolo dai tutsi, qui avevano fondato una monarchia di tipo feudale sottomettendo gli hutu e i twa, gli altri due gruppi etnici. Tutti e tre convissero nello stesso territorio condividendo la lingua, la religione e la cultura fino all’Ottocento quando il paese venne colonizzato dal Belgio. I belgi consideravano i tutsi superiori alle altre due etnie per la loro fisionomia più vicina ai canoni ottocenteschi: erano alti, magri e con la carnagione chiara. Gli hutu erano tozzi e di pelle scusa, per il Belgio erano più adatti ai lavori agricoli. Ma l’appoggio dei belgi all’etnia tutsi terminò nel 1950 quando gli hutu iniziano a ribellarsi a loro, e i tutsi a loro volta iniziano a progettare la loro indipendenza dal Belgio. Da quel momento il Belgio inizia ad appoggiare la rivolta degli hutu. Con l’abolizione della monarchia, nacque un regime razzista guidato da un partito per l’affermazione degli hutu. L’odio razziale verso la minoranza Tutsi era stata costituita da parte dell’élite sociale e culturale del paese. Iniziarono le persecuzioni contro i tutsi, costretti ad andare in altri paesi. Nacque anche il Fronte patriottico ruandese dei tutsi che aveva l’obiettivo di far tornare i profughi in patria attraverso la riconquista del potere. Furono anni di massacri da entrambe le parti fino a che il 4 agosto 1993 non vennero firmati gli accordi di Arusha che consentirono il rientro dei profughi tutsi. Intorno al presidente Habyarimana iniziò a formarsi un’organizzazione per pianificare il genocidio, con la collaborazione della milizia militare degli interahamwe. Si consultavano delle liste con i nomi di tutsi da uccidere e vennero acquistati dei machete dalla Cina da usare contro i tutsi, denominati “scarafaggi”. Nello sterminio vennero utilizzate infatti armi come machete, asce, lance e mazze. Anche chi non voleva partecipare a quello sterminio di massa, inclusi gli hutu, venivano eliminati. Per le strade, le milizie hutu chiedevano documenti a tutti i passanti e le persone che sulla carta d’identità avevano l’indicazione dell’etnia tutsi venivano massacrate a colpi di machete. In 100 giorni di conflitti si contarono circa 1.174.000 vittime, 10.000 morti al giorno.

Conflitto del Darfur – 26 febbraio 2003 – 31 agosto 2020

Nel 2003 in Darfur è esploso un conflitto che ha visto contrapporsi il governo del Sudan e il fronte della ribellione del Darfur. Le origini del conflitto sono riconducibili a matrici economiche, come il possesso della terra, e anche a rivalità tribali che hanno opposto i pastori arabi nomadi e gli agricoltori da una parte e gli allevatori stanziali dall’altra.  

Il termine “Darfur” significa “Terra dei Fur”, ossia l’etnia che abitava maggiormente quei territori. Si tratta di una popolazione di origine centrafricana che tra il XIV e il XVIII secolo ha dato vita a un sultanato indipendente. Nel 1916 il Darfur è stato accorpato al Sudan, all’interno del quale abitava una maggioranza araba. Le popolazioni africane per molto tempo hanno lamentato un trattamento di emarginazione da parte del governo centrale e dalle tribù arabe, richiedendo l’indipendenza dal governo centrale guidato dall’allora presidente Omar Al Bashir e aspirando alla gestione autonoma delle risorse. A partire da queste ragioni sono iniziati dei dissidi interni nel paese.

Il conflitto vero e proprio in Darfur è scoppiato il 25 aprile 2003, quando il Movimento popolare di liberazione del Sudan ha attaccato le forze militari sudanesi all’aeroporto di al-Fashir nel Darfur settentrionale. Negli anni a seguire, mentre infuriava la guerra tra forze ribelli e militari, centinaia di migliaia di persone sono state uccise e milioni di civili hanno dovuto abbandonare le loro terre. Questi furono solo i primi segni di quella che poi è diventata una furente pulizia etnica nei confronti dei civili non arabi. I crimini sono stati denunciati e documentati da Amnesty International in un rapporto che ha dimostrato che gli attacchi non si sono mai fermati. Episodi di massacri si sono registrati fino al 2016, con annessi crimini di guerra e gravi violazioni di diritti umani. Inoltre, bisogna tenere in considerazione che dalla fine del 2005 gli attacchi contro i civili sono aumentati e ad oggi ci sono circa 650.000 civili che non ricevono assistenza umanitaria poiché le ONG non riescono ad arrivare a loro. 

Si è calcolato che gli scontri e le azioni di violenza hanno causato almeno 400.000 morti e circa due milioni di sfollati. Il 31 agosto 2020, dopo un anno di trattati, il governo del Sudan e il Fronte Rivoluzionario del Sudan hanno firmato un accordo di pace a Giuba, capitale del Sudan del Sud. A distanza di due settimane sono però ricominciati gli scontri tra tribù con 140 morti.

Conclusione

Molti tra questi episodi non furono considerati subito dei “genocidi” nelle sedi istituzionali, tanto da prolungare l’uccisione di popoli interi per non aver fermato in tempo i massacri. Questo accadde nel conflitto in Ruanda, considerato genocidio appena due mesi dopo, ma fu il tempo necessario per l’attuazione del genocidio stesso. In questo caso la diplomazia statunitense indugiò molto in sede Onu e il massacro di massa fu fermato solo quando le vittime predestinate erano già state assassinate. Il conflitto ancora in corso in Darfur, invece, è stato definito dal Segretario di stato americano Colin Powell un genocidio solo nel dicembre 2004, ma da quella data in poi non è stato più riconosciuto come tale. Lo stesso discorso sulla tardività nei tempi di riconoscimento si potrebbe usare per l’attuale situazione a Gaza da parte dell’esercito Israeliano. A cento giorni dallo scoppio del conflitto tra Israele e Hamas, sono circa 24.843 i palestinesi uccisi a Gaza, tra cui 9.000 bambini, e su queste vittime sembra cadere ancora un silenzio assordante da parte di tutte le istituzioni del mondo.

L’espulsione e il genocidio, sebbene siano entrambi delitti internazionali, devono rimanere distinti; la prima è un crimine contro le altre nazioni, mentre il secondo è un attentato alla diversità umana in quanto tale, cioè a una caratteristica della condizione umana senza la quale la stessa parola umanità di svuoterebbe di ogni significato.

(Hannah Arendt)

Per la redazione

Elisabetta Di Cicco

Scena del film “First They Killed My Father” (2017) che racconta il genocidio cambogiano.

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