IL LINGUAGGIO ABILISTA: COS’È E COME RICONOSCERLO

“Allora dunque ci sono questi cretini integrali, decerebrati assoluti che in un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un’insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca. Ecco ci sono questi deficienti, nel senso che letteralmente hanno un deficit cognitivo – non è mica colpa loro, ce l’hanno – e che però pur essendo idioti hanno probabilmente centinaia o migliaia di followers, non ho controllato ma non importa, è assolutamente possibile che siano idoli della comunità.” (La Repubblica, Il valore di un selfie, Concita De Gregorio, 4 agosto 2023)
A primo avviso sembrerebbe di avere di fronte delle frasi innocue, espressioni informali usate tra conoscenti per parlare di terze persone o per fare dell’ironia spicciola, proprio come “Sono circondato da cerebrolesi” o “Avresti bisogno di un insegnante di sostegno” o ancora “Sei una persona autonoma, nonostante la tua disabilità!”, ci siamo abituati. Ma guardando le frasi da vicino non è proprio così. Pizzicando un po’ qua e là tra questi esempi, possiamo trovare da una parte una presa in giro, accostando qualcuno ad una persona che presenta delle fragilità e necessita quindi di aiuto. Dall’altra parte possiamo individuare una sorta di forzata ammirazione nei confronti di una persona che non dovrebbe viversi la vita così facilmente per colpa della sua ipotetica malattia. Ritroviamo queste espressioni nel nostro vocabolario comune, prendendo in prestito, senza farci caso, lo scenario difficile di chi è costretto a vivere quella cornice di vita nella propria quotidianità. Queste ed altre tipologie di comunicazione rientrano tutte nella sfera del linguaggio abilista.
L’abilismo è la tendenza a presupporre che tutte le persone siano in possesso di un corpo abile e che la disabilità non sia una sfumatura della complessità umana, bensì un difetto. E quindi l’abilismo ha alla base una prospettiva che detiene che la norma è data da un corpo abile e una mente abile. Nel periodo contemporaneo, in cui – va detto – grazie ai social abbiamo assistito ad una nuova riflessione intorno ai temi del razzismo, del sessismo e dell’omobitransfobia, anche la discussione intorno all’abilismo ha trovato il suo spazio.
Nella vita di tutti i giorni, ritroviamo l’abilismo quando viene negato l’accesso ai luoghi pubblici a persone con ridotta mobilità, quando si parcheggia l’auto negli stalli riservati ai disabili, quando si usa il pietismo nella comunicazione con una persona disabile. E poi lo ritroviamo appunto nel linguaggio abilista, quando si fa uso di espressioni discriminatorie nei confronti della patologia o quando si offende qualcuno con termini quali “down”, “cerebroleso”, “ritardato” e chi più ne ha più ne metta. Il linguaggio abilista permea la società, senza che ce ne accorgiamo, aggrappandosi ad un vero e proprio modo di pensare e di vivere il mondo, un mondo costruito ovviamente per chi non ha queste disabilità. Ciascuno di noi, senza saperlo, avrà sentito o utilizzato almeno una volta una frase abilista. E lo fanno anche i media, basta ritornare sull’articolo di recente pubblicazione di Concita De Gregorio in cui, per criticare il comportamento di alcuni giovani influencer che hanno distrutto una statua dell’Ottocento per farsi una foto, la giornalista li ha caratterizzati con degli aggettivi che rimandano appunto a soggetti con delle fragilità evidenti. Andando al di là delle scuse proferite da Concita De Gregorio alla comunità e alle associazioni che hanno sollevato polemiche dopo l’articolo – e provando ad ignorare coloro che puntano subito il dito contro il politicamente corretto – sarebbe importante che ciascuno inizi ad addentrarsi più a fondo nella materia, soprattutto chi si occupa di linguaggio. Espressioni come “costretto in carrozzina”, “ma sei sordo?”, “vittima della sua malattia”, rappresentano solo degli stereotipi dannosi per le persone con disabilità. Prima di scegliere se si tratta di dittatura del linguaggio, bisogna provare a mettersi nei panni delle persone che si sentono toccate da frasi come queste.
Oltre ai media, anche in molti film si può rintracciare un uso del linguaggio abilista. Non è difficile infatti che venga tratteggiata una linea di distacco tra “noi” abili e loro “non abili”. E qui torna l’idea che le persone con disabilità non rappresentino la norma, mentre i sani, gli abili, sono i veri portabandiera della normalità.
Appare dunque chiaro che ci sono molti modi per ripensare alla comunicazione e al linguaggio per combattere la discriminazione abilista. Ed è necessario andare oltre il perbenismo e il pietismo, oltre una rappresentazione fuorviante di ciò che è la disabilità e anche la malattia.
E allora quali sarebbero i termini da evitare e quali invece quelli da utilizzare?
Ce lo spiegano con un articolo pubblicato su Bossy le due attiviste sui temi della disabilità: Marina Cuollo e Sofia Righetti.
Espressioni da NON utilizzare: Handicappato/portatore di handicap, invalido, diversamente abile, normodotato o normoabile. “Disabile” come sostantivo e tutti i termini che definiscono il tipo di disabilità, come “paraplegico”, ecc. “Costretto sulla carrozzina”, “affetto da sindrome di Down”, “non vedente” o “sordomuto”, “ritardato”.
Espressioni da utilizzare: Come scritto nella Convenzione ONU sui Diritti delle persone con disabilità, i termini consoni da utilizzare sono “persone con disabilità” o “persona disabile”, ma anche “persona con sindrome di Down”, e poi “cieco”. Il ragionamento sulla scelta dell’espressione “persona con disabilità” segue la teoria “person-first language”, ovvero la persona va posta prima della sua disabilità per evitare una deumanizzazione causata dalla patologia. E si tratta di termini indicati anche dal National Center on Disability and Journalism. Il termine “persona disabile” segue invece la regola “identity-first language” e viene adoperato da attivisti e attiviste per combattere lo stato di minoranza oppressa. Le persone autistiche seguono questa teoria per contrastare anche il termine “persona con autismo” che tende a patologizzare la persona, distaccandola da una patologia che invece è parte del suo essere.
La scelta tra i due termini è piuttosto personale, spiegano le due attiviste. Sta al soggetto interessato dire come preferirebbe essere definito. In un ambito più generale però, come il giornalismo o la comunicazione, entrambi i termini sono preferiti a tutti gli altri.
“La lingua è stata inventata per scrivere certi scopi specifici”, scriveva David Foster Wallace. Ma il linguaggio non è un punto fermo, come non lo è una lingua. È un’entità viva che si muove, evolve e cambia per adattarsi ad una società mutevole e con esigenze sempre più specifiche e vicine a chi spesso resta nell’ombra.
Per la Redazione
Elisabetta Di Cicco
Rispondi