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GUARDARSI DA FUORI FA SORRIDERE

12 Giugno 2023
GUARDARSI DA FUORI FA SORRIDERE

Con il termine gaslighting si fa riferimento al processo di manipolazione di una persona con l’obiettivo di farla dubitare di se stessa, della propria percezione e della sua stessa stabilità emotiva. Il gaslighting può essere praticato anche da se stessi verso se stessi. Una manipolazione della nostra mente verso il nostro agire. Un atteggiamento che si impara negli anni e dal quale con fatica riusciamo ad uscirne da soli. Si apprende in tanti modi, il primo fra tutti è per “difenderci” dai contesti familiari e sociali traumatici nei quali ci trovavamo e respiravamo.
Contesti nei quali sentivamo un senso di oppressione sul petto. Contesti di aggressività e di invisibilità. Contesti nei quali il senso di inadeguatezza era forte e parlava chiaro. Contesti nei quali abbiamo appreso che soltanto rispettando alcune regole potevamo ricevere amore.

       Vittima e carnefice di me stessa. A lungo ho creduto che cambiando me stessa avrei cambiato anche il modo di essere guardata. Migliorando il mio carattere e la mia postura verso il mondo sarei diventata una persona degna di amore. Solo cambiando il mio corpo sarei stata degna di esistere. Solo se avessi avuto il miglior lavoro, avrei ricevuto la stima del mondo. Solo se…!

Vittima e carnefice sono la stessa persona. Io.  

        Questi “solo se” sono stati in realtà la tortura più grande della mia vita. Hanno rappresentato la gabbia nella quale, per anni, si compiva un’eterna distruzione di me contro me. Un continuo abuso di potere della mia mente affatica, verso le mie fragili emozioni e il mio corpo in costante cambiamento. Sono stata la manipolatrice più potente e più distruttiva di me stessa. Mi sono autosabotata, gettando via il meglio che la vita mi stava mostrando e concedendomi soltanto le briciole dei miei rimproveri. Mi sono auto-punita per un “male commesso” che evidentemente non esisteva. Ho torturato il mio corpo, soffocato la mia anima e annegato i miei desideri. Ho ferito a mani nude la mia testa quando mi stava soltanto chiedendo di avere compassione della piccola me. Mi chiedeva di fermarmi e prendere tra le braccia il mio io-bambina, impaurita e ferita, guardarla negli occhi e dirgli, che per ora, poteva anche abbassare le difese.

        La prima volta che mi hanno portato in terapia avevo 9 anni. Prendendo peso, il problema principale di tutti diventò il fatto che io fossi grassa. Evidenza schiacciante e limite reale, in quanto venivo discriminata, categorizzata e schernita costantemente da tutti.

Le abilità dei bambini sono infinite e proprio in quei mesi imparai l’arte della bugia e della negoziazione, convincendo la mia psicologa che avrei mangiato meno. Mi liquidò sull’istante, senza troppe resistenze. Intanto, affiancavo le grandi abbuffate con il piacere tagliente della lama nella carne. A 11 anni sono una persona in sovrappeso che soffre di disturbo di personalità borderline, ma nessuno lo sa, o meglio, nessuno lo vuole vedere perché fa paura, molta paura.

Prendersi cura di qualcuno terrorizza. La mia vita per anni è stata invisibile. Solo a me forse, perché il mio mostro si conformava al contenitore di dolore nel quale lo avevo rinchiuso ed era sempre più evidente.

        Il disturbo borderline di personalità è questo.

“Labbra morse per non far rumore. Respiri come torture, soffocate in gola.

Occhi opachi, impenetrabile trafiggere il presente.

Pugni in testa per far tacere le voci di disprezzo, che hanno costruito un condominio nell’anima. Tapparelle abbassate per giorni. Maratone con immobilità fisica.

Mani sacrificate a ferire e sporcare sacralità.

Relazioni distrutte e ricostruire e poi di nuovo messe in un angolo e ancora anelate.

Voler bucare il pensiero. Annientare il corpo e i suoi bisogni. Fermarsi. Soffocare nell’acqua. Correre. Fermarsi. Stringere il cuore in una mano. Danzare e scomparire. Vivere dell’unico istante che nessuno mai vivrebbe. Vivere i propri battiti ammuffiti, preda dell’alessitimia.

Mi sento!.”

       Essere morti in vita non è facile, ma chi vive questa dolce e amara difesa della testa, sperimenta la caduta nel burrone ogni istante della sua vita. Chi come me vive da sempre la ricerca esagerata e patologica di stimoli e di emozioni per ritrovarsi e sentirsi vivo, sa che la dipendenza da una sostanza, un oggetto, un’idea, una persona o da parole di annullamento è dietro l’angolo. E sa che soltanto nei momenti in cui l’acqua può sembrare piatta, priva di entusiasmo, si può far emergere la testa e respirare.

         Sono 20 anni che vivo con la consapevolezza di avere un vuoto gigante da colmare dentro di me. Sono 17 anni che cerco dipendenze diverse per scappare da lui e da me. Sono 5 anni che ho baciato le mie lacrime e che la terapia mi ha ricucito addosso alcuni pezzi di me.

Non è facile e non lo sarà mai perché il senso di colpa e l’ansia di guarigione forzata mi schiaccia e mi fa male. Non è facile perché ogni volta che sono giù, mi viene la voglia di continuare a sprofondare, mi viene l’istinto di tornare a riattivare i miei schemi mentali e di gettarmi tra le braccia dei miei falsi “amici”.

La terapia ha segnato per me il PASSAGGIO DALLA MARGINALITÀ DELLA MALATTIA MENTALE ALLA MARGINALITÀ DELLA FRAGILITÀ DELL’ESSERE UMANO.

Ed ora, guardarsi da fuori fa sorridere.

Per la redazione,

Alessia

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