Il jazz come metafora dell’improvvisazione virtuosa
Nel film di esordio del regista francese Louis Malle, Ascensore per il patibolo del 1958, il compositore e trombettista jazz Miles Davis (1926 – 1991) improvvisa una colonna sonora sulle immagini, reagendo alle scene che vede con la sua musica. È una prima buona visione che ci racconta l’analogia con la vita di ognuno di noi, che è sempre un reagire al vento dal nulla che ci colpisce improvviso, all’inciampo inevitabile.
L’improvvisazione è una costante delle variegate esperienze musicali che a partire dal XX secolo vanno sotto il nome di jazz e che sono l’evoluzione di forme preesistenti di derivazione afroamericana.
Quello che ci ripetono spesso i grandi musicisti di questo genere resiliente (si veda ad esempio la conversazione tra Edoardo Camurri e Paolo Fresu in una puntata del programma Rai Maestri) è che l’improvvisazione non si improvvisa.
Non c’è solo la tecnica a guidare i musicisti per orientarsi, mentre si confrontano con materiali dati, spesso preesistenti. Il tempo, la melodia, gli accordi, le battute, i temi sempre soggiacenti alle composizioni, possono essere messi in una sistemazione sempre diversa, ma sensata. Gli improvvisatori cercano costantemente una chiave per volare sopra le forme e per accenderle a modo loro. Per farlo hanno studiato, se conoscono la musica, oppure hanno ascoltato molto se suonano a orecchio.
Sono poi quasi sempre in gruppo, fosse un trio, un quartetto, una band, un’orchestra e dunque provano costantemente a trarre apprendimento dell’altro, dall’ascolto, dal testimone che ti passa. Quindi mettono essi stessi attenzione nel passare la mano all’altro musicista e strumento. L’improvvisazione è ascolto e capacità di maneggiare l’esperienza, facendone un racconto collettivo qui e ora.
Gli improvvisatori jazz si relazionano nella condivisione, nel rispetto del suono e del silenzio altrui a cui danno senso. Contemporaneamente si relazionano con lo spazio dove suonano insieme, che rimanda loro feedback e vibrazioni diverse. Il loro suonare è sempre un interplay.
È facile ravvisare in questo tipo di improvvisazione, che non è approssimazione e non è cialtroneria, qualcosa che appartiene sia all’incontro musicale che a quello umano di buona fattura. È l’incontro creativo con il dato di fatto, con l’ostacolo con cui si viene a patto solo se lo si riconosce e se si padroneggia progressivamente la direzione dove andare in base a una visione, con ricerca e studio, mediando con altri, perché curiosi dello stile e della storia altrui.
Allo stesso modo è importante notare che si può improvvisare anche per gestire la routine e la ripetitività musicale, oppure esistenziale, oppure lavorativa, per provare a abitare il caos e la complessità in modo efficace.
La musica, come la vita umana, non è perfezione, ce lo ricorda Il pianista Theolonius Monk (1917 – 1982) che ripeteva di suonare solo gli errori giusti e che quindi l’assolo migliore è quello sbagliato a volte, dove l’errore, inteso come ricercare e errare appunto, è un’idea fondamentale di cui prendersi cura. Il jazz sembra in gran parte costruito su un errore di tempo, sfasato, destrutturato. Sì insomma, sembra costruito sulla ricerca del proprio tempo che non nega mai l’esistente oltre a sé.
Dall’ascolto incuriosito del jazz e delle sue forme non formali, spesso ritenute ostiche dal fruitore musicale medio, possono derivare scoperte interessanti.
Nella musica di Duke Ellington (1899–1974) e la sua orchestra l’improvvisazione spesso avviene attorno a una struttura blues di 12 battute circolari ripetute che possono teoricamente tendere all’infinito, dove ogni musicista porta il suo contributo tematico in maniera diversa. Una grande fucina di apprendimenti reciproci dove il direttore d’orchestra ha l’attenzione di trarre il meglio dal suono di ciascuno.
Louis Armstrong (1901–1971) suonando, ad esempio, il tema principale dall’Opera da tre soldi di Brecht (Mack the Knife), lo fa evolvere circolarmente interpretandolo in maniera sempre diversa, svisando la melodia con piccole infiorettature, che se diventano sempre di più fanno nascere qualcosa di diverso dal punto di partenza.
Spesso la creatività nasce dal rispetto sul lavoro di materiale altrui, con umiltà, rispettando il senso originario senza farne una fotocopia. È ricerca di connessione e relazione.
Il sassofonista Hornet Coleman (1931–2015) probabile inventore del genere free jazz, nel 1961 affianca due quartetti da lui non diretti, se non nell’input di improvvisare totalmente e contemporaneamente su suoi temi precedenti. Qui l’ascolto è non solo fra chi suona insieme ma con chi suona vicino.
Il jazz è una cooperazione non preconfezionata, che è ancora molto attuale a descrivere la nostra ricerca dell’altro in contesti dove il senso sembra dover essere costruito insieme e condiviso.
Il filosofo russo Petr Kropotkin rifiutando il darwinismo sociale in cui vince la legge del più forte, afferma che nella teoria evoluzionista di Darwin il progresso viene assicurato in realtà dalla legge del mutuo appoggio. È la solidarietà, insieme al coraggio, che assicura la vittoria della specie. Anche questo ribadisce il jazz.
Il capogruppo, secondo il trombettista Paolo Fresu, lancia una pallina da ping pong che non deve mai toccare terra, la solidarietà la tiene sempre su nell’improvvisazione creativa. La musica suonata insieme con improvvisazione virtuosa (in senso etico e non tecnico) è insieme cooperazione e liberazione continua da schemi angusti.
In un tempo caratterizzato dall’ansia di controllo che si rivela spesso illusione e che può sfociare in nevrosi, ascoltare musicisti jazz che dialogano in libertà rispettosa, può essere un elemento importante di cura di sé, farlo in un concerto insieme ad altri è ancora meglio.
Per la redazione
Fabrizio Ferraro
Pippo Baudo racconta di quando fermò l’improvvisazione di Louis Armstrong al Festival di Sanremo del 1968
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