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ISRAELE E LE ACCUSE DI GENOCIDIO: UNA VERITÀ INVISIBILE

25 Gennaio 2024
ISRAELE E LE ACCUSE DI GENOCIDIO: UNA VERITÀ INVISIBILE

Il 7 ottobre 2023, intorno alle 6:30 ora locale, a Gerusalemme risuonano le sirene antiaeree, avvertendo i cittadini di un attacco in corso che coinvolge il lancio di oltre 5.000 razzi dalla Striscia di Gaza verso Israele nell’arco di 20 minuti. 

Nell’arco della stessa giornata, militanti armati di Hamas, molti dei quali su motociclette o penetrati in Israele con velivoli artigianali, sparano contro i civili. Questo segna l’inizio di ciò che Hamas annuncia come l’operazione “Alluvione Al-Aqsa”. 

In risposta, Israele lancia attacchi di rappresaglia su Gaza, sotto l’egida dalle dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu: “Israele è in guerra”. Questo segna l’inizio di quella che Israele ha denominato “Operazione Spade di Ferro” nella Striscia di Gaza che, secondo il Ministero della Salute di Gaza, da quando è scoppiata la guerra, ha causato 25.105 vittime e 62.681 feriti. A metà gennaio, complessivamente a Gaza 1,9 milioni di persone (pari all’85% della popolazione totale) sono state sfollate.
L’escalation iniziata il 7 ottobre, oltre a rompere un equilibrio precario che aveva erroneamente allontanato la questione israelo-palestinese dall’attenzione della comunità internazionale, solleva una domanda fondamentale: le azioni militari di Israele possono essere qualificate come genocidio?
Nell’intento di orientare verso una personale risposta a questa domanda, è essenziale compiere un primo passo che consiste nel distinguere le varie forme di sterminio: la violenza di massa, ossia uccisioni di massa indiscriminate o mirate di un gran numero di persone in un breve periodo di tempo. Questi atti possono essere perpetrati in contesti di guerra, rivolte, o come parte di campagne sistematiche contro gruppi specifici. I massacri possono essere spontanei o pianificati e spesso sono eseguiti senza processo legale; lo sterminio, inteso come una serie di massacri sistematici con l’obiettivo di sottomettere e annientare un gruppo. A differenza del semplice massacro, lo sterminio è spesso parte di una strategia più ampia e pianificata, come può essere osservato in genocidi o in campagne di pulizia etnica; il dominio e l’espulsione, che in altri termini si riferiscono alla “pulizia etnica” (un’espressione nata dal termine serbocroato “etničko čišćenje”), un termine che descrive il processo di rimozione forzata di un gruppo etnico, religioso o nazionale da un’area geografica. Questo può includere atti di violenza, deportazione, distruzione di proprietà, e altre forme di oppressione; e, infine, il genocidio.
Il termine “genocidio” fu coniato dal giurista Raphael Lemkin, che combinò il prefisso “geno-“, derivato dal greco γένος, che significa “razza” o “tribù”, con il suffisso “-cidio”, dal latino “caedere”, che significa “uccidere”. Nella proposta di questo nuovo termine, Lemkin pensava “all’insieme di azioni pianificate e coordinate per distruggere gli aspetti fondamentali della vita di determinati gruppi etnici, con l’obiettivo di annientare quei gruppi stessi”. Lemkin, nel commentare il concetto di “genocidio” da lui introdotto, aggiunse in una nota che un termine alternativo potrebbe essere “etnocidio”, che unisce la parola greca “ethnos”, significando “nazione”, con la parola latina che indica “uccidere”.
Nella Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, adottata il 9 dicembre 1948, il genocidio è definito come un crimine internazionale. Gli stati firmatari della convenzione si impegnano a “combattere e punire” questo crimine (articolo 6 della Risoluzione n. 260 delle Nazioni Unite). La Convenzione offre la seguente definizione di genocidio:

“Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale: uccisione di membri del gruppo; lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; sottomissione deliberata del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo (quali l’aborto obbligatorio, la sterilizzazione, gli impedimenti al matrimonio ecc.); trasferimento forzato di minori da un gruppo ad un altro”.



Dunque, conformemente a tale definizione, per provare che sia in atto un genocidio, è necessario dimostrare non solo l’intenzione di distruggere, ma anche che l’azione distruttiva sia diretta contro un gruppo specifico. Sulla base di questi criteri, l’11 gennaio la Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) ha iniziato un’udienza per determinare se le azioni militari di Israele contro la Striscia di Gaza possano essere classificate come crimine di genocidio. La Carta delle Nazioni Unite, adottata nel 1945 e firmata da tutti i membri dell’ONU, Israele incluso, stabilisce che la CIJ è l’organo giuridico supremo dell’ONU. La Carta conferisce alla Corte due principali poteri: emettere pareri consultivi e decidere in controversie tra Stati. Le sentenze della Corte sono vincolanti per gli Stati che hanno ratificato la Carta delle Nazioni Unite.
Secondo Michael Sfard, uno dei più eminenti avvocati israeliani per i diritti umani, esperto nelle violazioni commesse dallo Stato nei territori occupati, potrebbero esistere basi giuridiche per cui la Corte potrebbe emettere un ordine che richieda a Israele di rendere conto di come sta agendo per prevenire il genocidio e di come sta affrontando l’incitamento al genocidio da parte dei suoi stessi leader politici. Analizzando quest’ultimo aspetto, senza la pretesa di essere esaustivi, possiamo compiere un ulteriore passo verso una risposta personale alla domanda di questo articolo: le azioni militari di Israele possono essere considerate genocidio?
il 7 ottobre, giorno dell’inizio del conflitto, il Primo Ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato che gli abitanti di Gaza avrebbero pagato un “prezzo enorme” per le azioni di Hamas e che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) avrebbero trasformato intere parti dei centri urbani densamente popolati di Gaza “in macerie“.
Il 9 ottobre, il Ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha dichiarato: “Stiamo combattendo contro animali umani e ci comportiamo di conseguenza”. Il giorno dopo, il Coordinatore delle attività governative nei territori occupati, Ghassan Alian, si è rivolto alla popolazione di Gaza in arabo: “Gli animali umani devono essere trattati come tali”, aggiungendo: “Non ci saranno né elettricità né acqua. Ci sarà solo distruzione. Volevate l’inferno, avrete l’inferno”.
Lo stesso giorno, il General Maggiore in pensione Giora Eiland ha scritto sul quotidiano Yedioth Ahronoth: “Lo Stato di Israele non ha altra scelta che trasformare Gaza in un luogo in cui sia temporaneamente o permanentemente impossibile vivere”. Ha aggiunto: “Creare una grave crisi umanitaria a Gaza è un mezzo necessario per raggiungere l’obiettivo”. In un altro articolo ha scritto che “Gaza diventerà un luogo dove nessun essere umano potrà più esistere”. A quanto pare, nessun rappresentante dell’esercito o politico ha denunciato questa dichiarazione.

Anche se, secondo alcuni storici dei genocidi come Omer Bartov, non ci sono prove sufficienti che un genocidio sia attualmente in corso a Gaza (anche se è molto probabile che si stiano verificando crimini di guerra e persino crimini contro l’umanità), sarà necessario attendere il verdetto dell’udienza della Corte Internazionale di Giustizia (CIJ) per poter compiere il passo decisivo verso una risposta univoca alla domanda che, almeno in questa sede, rimane ancora una verità invisibile. In particolare, se si considera che, nonostante il termine “genocidio” sia giuridicamente molto specifico e indichi crimini violenti commessi contro determinati gruppi di individui con l’intento di distruggerli, sia nell’uso popolare che in quello giornalistico e accademico i confini di questa categoria giuridica non sono netti e spesso aprono a nozioni contigue come quelle di “uccisioni di massa” e “pulizia etnica”. 

Comunque sia a Gaza si continua a morire e muoiono soprattutto civili.


Per la redazione

Guglielmo Accardo

Francesca Albanese relatrice Onu per i diritti umani in Palestina

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