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LA LINGUA DI PRIMO LEVI

13 Settembre 2023
LA LINGUA DI PRIMO LEVI

“A mio parere non si dovrebbe scrivere in modo oscuro”

Primo Levi

Primo Levi (1919 – 1987) è una figura chiave della memoria e della letteratura mondiale, per il suo ruolo di testimone diretto del lager nazista e grande narratore.

Lo studioso di letteratura Fabio Magro ha ribadito nel centenario della sua nascita che “Levi non sarebbe stato il testimone che è se non fosse un così grande scrittore”. Ha spiegato il perché Pier Vincenzo Mengaldo (critico letterario, storico letterario e linguista), notando che è proprio la sua scrittura con le sue scelte a raccontare in maniera efficace l’indicibile della realtà dei campi di sterminio.

Ricordiamo a questo proposito Se questo è un uomo (suo libro di esordio del 1947 che racconta la sua prigionia dopo la deportazione nel Campo di Monowitz, satellite di Auschwitz, poi ripubblicato nel 1958 dall’editore Einaudi che lo aveva rifiutato ai tempi della prima edizione), a cui seguirà La tregua nel 1963 (il racconto dell’odissea del ritorno dei deportati). Levi ritornerà poi sulle vicende dello sterminio di massa con una riflessione approfondita di ciò che è stato e che potrebbe essere replicato in tempi e modi diversi, con I sommersi e i salvati, capolavoro di lucidità e analisi uscito nel 1986. Oltre a questo Levi è stato autore di racconti, romanzi, poesie e saggi che ne fanno un punto di riferimento letterario per contenuti e per aspetti espressivi.

La necessità originaria di scrivere in Levi, nasce daI suo sogno ricorrente (uguale per molti prigionieri dei campi di sterminio). Quello in cui egli pur salvandosi miracolosamente dalla camere a gas o dalla morte per fame e pur ritrovandosi al sicuro nel caldo accogliente della sua casa di Torino, non trovava una sola persona che credesse al suo racconto.

Con i contorni di questo incubo, cresce la consapevolezza di una missione da compiere, quella di raccontare e di testimoniare. Del resto un obiettivo fondamentale della soluzione finale nazista a della sua ingegnerizzazione, era anche quello di far scomparire tutte le tracce e tutti i “portatori di segreti” di quella realtà così incredibile che permette anche oggi la negazione storica ad alcuni, di cui Primo Levi resterà sempre tra i più acerrimi nemici con la nettezza della sua opera.

Quali sono allora le caratteristiche della lingua di Levi che permettono un compito così arduo: raccontare l’esperienza dei lager e farsi ascoltare.

Nella raccolta L’altrui mestiere del 1985, prova a rispondere alla domanda “Perché si scrive” elencando nove motivi di fondo. Il sesto possibile affronta il tema dello scrivere per liberarsi da una angoscia, che viene così commentato: “non ho nulla da obiettare a chi scrive spinto dalla tensione: gli auguro anzi di riuscire a liberarsene così, come è accaduto a me in anni lontani. Gli chiedo però che si sforzi di filtrare la sua angoscia, di non scagliarla così com’è, ruvida e greggia, sulla faccia di chi legge: altrimenti rischia di contagiarla agli altri senza allontanarla da sé”.

Levi non ricerca la spontaneità e l’immediatezza di quello che chiama il “linguaggio del cuore”, interessato in modo prioritario a generare empatia, ma innanzitutto la chiarezza e l’efficacia comunicativa, per farsi comprendere a pieno, “da mente a mente, da luogo a luogo, da tempo a tempo, e chi non viene capito da nessuno non trasmette nulla, grida nel deserto […] sta allo scrittore farsi capire per chi desidera capirlo. È il suo mestiere, scrivere è un servizio pubblico” (“Dello scrivere oscuro” in L’altrui mestiere).

Una lingua chiara, intellegibile, trasparente, precisa, lontana dall’approssimazione. Risultato del felice incontro tra la sua vocazione letteraria e la sua forma mentis scientifica, come racconta ancora lui stesso in un’intervista rilasciata allo scrittore Philip Roth: “ho sviluppato l’abitudine a scrivere compatto, a evitare il superfluo. La precisione e la concisione, che a quanto mi si dice sono il mio modo di scrivere, mi sono venute dal mestiere di chimico” (Il sistema periodico), lavoro per cui l’autore non solo ha studiato ma nel quale si è impegnato per molti anni del Dopoguerra.

Ma la ricerca di esattezza classica, nutrita di capacità di osservazione scientifica, non si risolve mai in didascalismo o aridità espressiva. Tutt’altro, sono sempre ben presenti e all’opera l’attenzione all’effetto emotivo e all’efficacia. Basti richiamare alcuni esempi di osservazione con tali caratteristiche, per comprendere.

La divisa dei prigionieri in Se questo è un uomo è “lurida, muta e grigia”, il paesaggio esterno viene descritto in coerenza con quello interiore in “una spettrale alba di neve”. Nella sintassi prevale un uso paratattico della lingua, che procede per frasi brevi, ma l’esito non è mai la frammentarietà, ma viceversa la ricchezza di elementi governati dalla scansione, dall’ordine, dalla misura e dalla relazione armonica del tutto. Nella formalità di una lingua classica, effetti espressivi e situazione emotiva si parlano, rendendo al meglio l’autenticità dell’esperienza e il desiderio di comunicare al mondo quello che non deve essere dimenticato.

La scrittura regolata rappresenta anche lo strumento di precisione del chimico per comprendere l’abisso del lager e quello umano, per farne racconto intellegibile. Infatti, “Abbiamo una responsabilità finché viviamo, dobbiamo rispondere di quanto scriviamo parola per parola, per far sì che ogni parola vada a segno.

Dunque la scelta dello stile attraverso una lingua italiana classica (che lui stesso con ironia definirà a tratti “marmorea”), nei suoi libri di testimonianza, sembra essere coerente a più livelli anche per il fatto di introdurre un argine al caos dell’esperienza che non può essere narrato attraverso lo sperimentalismo. Sempre il nostro dice: “Non è vero che il disordine sia necessario per dipingere il disordine; non è vero che il caos della pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a cui siamo votati: crederlo è un vizio tipico del nostro secolo insicuro […]. Chi non sa comunicare, o comunica male, in un codice che è solo suo o di pochi, è infelice e spande infelicità intorno a sé” (le ultime citazioni da “Dello scrivere oscuro” in L’altrui mestiere).

Se dovessimo ricorrere alle celebri categorie di Italo Calvino, lettore e in qualche modo scopritore dei lavori di Levi, che sono riportate nelle Lezioni americane, non parleremmo solo di “chiarezza” come cifra del suo scrivere. Del resto è lo stesso Levi ad essere consapevole che si tratti di condizione necessaria ma non sufficiente, visto che si può essere chiari ma nell’ignoranza, nella noia, nell’inutilità, nella menzogna e nella volgarità. Sono infatti importanti anche l’“esattezza” (chiamare le cose con il loro nome), la “molteplicità” (tutti i suoi libri sono enciclopedici e celano le molte curiosità di Levi) e la “rapidità” (la capacità di fare sintesi della materia e di andare all’essenziale).

E forse è ancora più importante ricordare che tali categorie e lo strumento letterario, guidano una ricerca di verità sulla condizione dei lager e su quella umana, sostenute da un metodo di osservazione rigorosa.

Leggere Primo Levi in tutta la sua produzione è un’esperienza proficua per conoscere la storia, per apprezzare analisi ben poste per comprendere e restare vigili a che le esperienze di sterminio non ritornino e quando tornano, perché sono già tornate ai tempi dell’uscita di I sommersi e i salvati e anche oggi, chiedere l’ispirazione a Primo Levi per inquadrarle: cosa direbbe oggi ad esempio sui campi di prigionia libici?

Ma si possono leggere i suoi libri anche per farsi ispirare da una prosa autorevole di verità nell’apparente semplicità. È una lingua realizzata per sottrazione, ma non è reticente, racconta tutto con coraggio, ma in modi che restino sempre comprensibili ai lettori. Conosce l’arte della retorica ma la governa da grande scrittore. Pensiamo solo ai versi:

Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d’inverno.

(Se questo è un uomo in Ad ora incerta)

Con l’uso dell’anafora ad esempio (utilizzata anche negli scritti in prosa), vale a dire della ripetizione voluta delle parole e del ritmo, per farci guardare proprio in quella direzione dalla quale vorremmo distogliere gli occhi, come spesso anche oggi vorremmo fare per quieto vivere e non guardare la violenza, l’ingiustizia e il sopruso.

Primo Levi cerca ancora lettori che vogliano sfogliare i suoi libri tendendo l’orecchio a quello che ci racconta e al modo mirabile di farlo: “Il mio lettore perfetto […] legge […] perché è curioso di molte cose, vuole scegliere fra esse, e non vuole delegare questa scelta a nessuno; conosce i limiti della sua competenza e preparazione, ed orienta le sue scelte di conseguenza; nella fattispecie, ha volenterosamente scelto i miei libri, e proverebbe disagio e dolore se non capisse riga per riga quello che io ho scritto, anzi, gli ho scritto: infatti scrivo per lui”.

Per la redazione

Fabrizio Ferraro

“Se questo è un uomo” di Primo Levi, interpretata da Dino Becagli (attore e regista lucano) su musica di sottofondo di John Williams, colonna sonora del film “Schindler’s List”

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