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LE LENTI DELLA GUERRA: IL RUOLO DELLE IMMAGINI NEL CONTESTO BELLICO

28 Novembre 2023
LE LENTI DELLA GUERRA: IL RUOLO DELLE IMMAGINI NEL CONTESTO BELLICO

La nostra società è spesso descritta da sociologi e antropologi come “la società delle immagini”, un termine che sottolinea la pervasività della comunicazione visuale nella nostra vita quotidiana. Questo include la pubblicità, il giornalismo, i social media o l’arte, tutti mezzi che utilizzano le immagini per comunicare in modo rapido ed efficace, talvolta più delle parole.
Secondo ricerche psicologiche, l’influenza delle immagini è amplificata dalla grande ricettività del cervello umano alle informazioni visive. Si stima, infatti, che circa l’80% delle informazioni che assimiliamo dall’ambiente esterno sia acquisito attraverso la vista. Al contrario, i testi scritti richiedono un’elaborazione cognitiva più complessa e spesso non vengono ricordati con la stessa efficacia delle immagini.
Il processo tramite il quale le informazioni vengono trasmesse attraverso le immagini può essere esaminato da molteplici prospettive.

Le immagini possono includere simboli, colori e composizioni che trasmettono messaggi specifici e stimolano interpretazioni culturalmente determinate. Di certo, il potere delle immagini deriva, in parte, dalla loro capacità di suscitare risposte emotive immediate in una frazione di secondo. In virtù di ciò, guerra e comunicazione visiva hanno una lunga storia congiunta. Le rappresentazioni di guerra, sofferenza umana, devastazione e distruzione hanno sempre occupato uno spazio significativo nel mondo delle immagini, attirando l’attenzione degli spettatori e influenzando l’opinione pubblica.
Le immagini di guerra, oltre a documentare eventi, hanno spesso svolto un ruolo cruciale nel rafforzare il morale delle truppe e della popolazione, filtrando le notizie per adattarle alle esigenze del conflitto, fungendo così da strumenti di “propaganda”. Un esempio è l’Istituto Luce durante la campagna in Russia dell’Italia fascista nel 1941, che ritraeva i soldati italiani come eroi valorosi nonostante le difficoltà. Tuttavia, le perdite italiane furono significative, con circa 20.000 uomini caduti in combattimento e altri 10.000 morti dopo essere diventati prigionieri.
Dunque, è cosa nota, la guerra si combatte non solo con le armi, ma anche attraverso le narrazioni veicolate dalle immagini, influenzando così l’opinione pubblica a livello globale.

La guerra del Vietnam (1955-1975) è stata la prima ad essere trasmessa nelle case tramite la televisione, suscitando un forte dissenso nell’opinione pubblica americana che ha influenzato l’andamento del conflitto. La guerra del Golfo del 1991 è stata caratterizzata dalla manipolazione delle informazioni per legittimare l’azione militare, presentando il conflitto come una guerra “chirurgica” senza vittime civili e senza immagini di sangue o morti. Al contrario, oggi assistiamo a una situazione diversa con la guerra in Ucraina e nella Striscia di Gaza, dove immagini di morte e distruzione vengono trasmesse quotidianamente nelle case attraverso la televisione e, in particolare, Internet.
Oltre a influenzare la percezione, le immagini di guerra che mostrano sofferenza e violenza sollevano questioni normative, richiedendo risposte etiche e politiche e, contemporaneamente, costruiscono una rappresentazione della vittima. Secondo Birgitta Hoijer, queste immagini tendono spesso a concentrarsi su modelli specifici di “vittime ideali”, trascurando altre vittime che non rientrano in questa categoria.
La “vittima ideale” è una costruzione storica che si evolve attraverso una sua ricorsiva rappresentazione nel tempo, focalizzandosi su specifiche categorie di persone. Di conseguenza, il risultato implicito è che alcune vittime suscitano più attenzione e compassione nel pubblico rispetto ad altre. Storicamente, i bambini, le madri, gli anziani e le donne sono spesso considerati vittime ideali, mentre gli uomini sono raramente visti in questo ruolo.
Ad esempio, la fotografia di Phan Thị Kim Phúc, una bambina nuda che scappa da un bombardamento al napalm durante la guerra del Vietnam, scattata da Nick Ut l’8 giugno 1972, è diventata uno dei simboli più evocativi del conflitto. La foto mostra Kim Phúc insieme ad altri bambini che fuggono dal villaggio di Trang Bang, colpito dal napalm. Quest’immagine, che ha vinto il Premio Pulitzer, ha catturato l’orrore della guerra in modo esplicito, suscitando una risposta emotiva globale e influenzando significativamente l’opinione pubblica internazionale. È stata usata da movimenti anti-guerra in tutto il mondo come un’espressione potente delle terribili conseguenze del conflitto. La foto ha anche contribuito a cambiare la percezione della guerra del Vietnam negli Stati Uniti e in altri paesi, evidenziando gli effetti devastanti delle azioni militari sulla popolazione civile, in particolare sui bambini.
Dunque, il rapporto con le immagini in contesti di conflitto, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, agisce come una potente testimonianza morale, suscitando consapevolezza e stimolando la necessità di un’azione concreta. Tuttavia, l’esposizione continua a immagini di sofferenza e dolore può generare reazioni complesse e ambivalenti. Da un lato, queste immagini possono suscitare un senso di colpa e responsabilità morale, mentre dall’altro possono anche indurre un meccanismo di difesa che porta al distacco emotivo. Questo fenomeno, noto come “compassion fatigue” o stanchezza da compassione in psicologia, descrive come l’esposizione ripetuta a immagini traumatiche possa portare a una ridotta sensibilità o addirittura a un’indifferenza verso il dolore altrui, un fenomeno che può intensificarsi con la sovraesposizione a immagini di guerra sui social media.
Allo stesso tempo, le immagini di guerra, diffuse attraverso i social media, raggiungono rapidamente un vasto pubblico, amplificando il loro impatto emotivo e informativo. Questo ha trasformato il modo in cui le guerre vengono percepite e comprese dal pubblico globale. Tuttavia, questa tendenza comporta anche sfide significative, tra cui l’aumento nella diffusione di fake news. Le immagini possono essere facilmente manipolate o estratte dal loro contesto originale per servire a specifiche narrative o scopi propagandistici. In alcuni casi, foto o video possono essere riutilizzati o presentati fuori contesto per evocare ricordi di conflitti passati, creando parallelismi che potrebbero non essere del tutto accurati.
D’altra parte, i social media possono offrire una piattaforma per voci altrimenti inascoltate, permettendo ai testimoni oculari nei territori di conflitto di condividere le loro esperienze dirette. Questo può contribuire a fornire una rappresentazione più sfaccettata e autentica della realtà della guerra, contrastando la narrazione unilaterale spesso presentata nei media tradizionali.

Per la redazione

Guglielmo Accardo

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