TEATRO DELL’OPPRESSO.
SOSPENDERE IL GIUDIZIO PER NON SOSPENDERE LA LOTTA
Il teatro […], quest’arte in cui un organismo vivo lotta
per motivi superiori, presenta un’occasione
di quel che potremmo definire l’integrazione,
il rifiuto delle maschere, il palesamento della vera essenza:
una totalità di reazioni fisico mentali.
Jerzy Grotowski, Per un teatro povero
Negli anni ’60, mentre il Brasile subiva il colpo di Stato che l’avrebbe inchiodato per un ventennio, e più, a una dittatura criminale e violenta, montò una virulente e sottile (sottile perché strategica, clandestina) opposizione civile e culturale.
Non solo gli studenti e le manifestazioni popolari, spesso represse nel sangue, anche gli esponenti dell’intellighenzia brasiliana combatterono una lotta, servendosi degli strumenti propri della loro arte. Il Cinema Novo, il Tropicalismo nella musica e il Teatro do Oprimido, ovvero il Teatro dell’Oppresso.
È Augusto Boal a teorizzare il metodo teatrale dell’Oppresso, raccogliendo l’eredità intellettuale di Paulo Freire, pedagogista autore de La pedagogia degli oppressi.
I titoli non lasciano incertezze sul peso che la situazione sociopolitica esercita nell’elaborazione di entrambe le teorie. Freire attua un’analisi di cosa siano un oppresso e un oppressore, descrivendone le caratteristiche individuali e, poi, la complessa relazione che li lega in un costante esercitarsi di forza e potere; il primo subirà sempre l’effetto coercitivo del secondo, cioè l’oppresso dovrà passare attraverso un processo di disumanizzazione instaurato dall’oppressore.
Come può, l’oppresso, liberarsi? Qual è la reazione attuabile dall’oppresso per non sottostare al giogo?
Freire risponde con la presa di coscienza e con l’educazione problematizzante.
Tralasciando il secondo aspetto, più strettamente pedagogico, il primo involve la capacità di presentarsi a sé, rispettarsi o rispecchiarsi nello specchio dell’umanità, ossia l’essere presenti a sé stessi come umani, individui, collettivizzabili ma, in primis, individualità per-sè.
È questo uno dei nodi centrali che Boal, nella teorizzazione del Teatro dell’Oppresso, reclama per veicolare un nuovo metodo, inserito nel contesto sociopolitico del Brasile sotto dittatura.
Lo scopo principale del “metodo do Oprimido” è rendere il teatro una forma di educazione sociale e spirituale per l’individuo; la premessa vuole che questo tipo di teatro sia popolare, non solo nei contenuti, ma che si costruisca con i corpi e le voci di attori non professionisti, che esondi dal rettangolo scenico fino a dilagare nelle strade, nel pubblico, nel popolo.
Lo si può esemplificare. Una delle tecniche più utilizzate è quella del teatro invisibile, ovvero una messa in scena pubblica, tra attori mimetizzati nella folla, che inscenano una rappresentazione di forte impatto sociale, al punto da costringere i passanti, i cittadini, a intervenire. È un processo che assomiglia a certi esperimenti sociali, in voga nei canali YouTube negli ultimi tempi (un maltrattamento simulato in pubblico per analizzare le reazioni dei passanti).
Un teatro popolare dunque, ma anche rivoluzionario nel suo scardinare le dinamiche tra attore e spettatore, tra palco e platea, a sottolineare la principale rivoluzione ancora da compiere: quella che vorrebbe spezzare le dinamiche di potere e tra oppressore e oppresso.
Boal, fuggito dal regime in Europa, a Parigi, renderà popolare il metodo, venendo anche a patti con una società apparentemente benestante, quantomeno politicamente. È qui che il Teatro dell’Oppresso assumerà forme nuove, meno politicizzate e anche meno strategiche (non v’è censura da eludere o arresto da evitare), adeguandosi a un’oppressione psicologica, trasformandosi in un percorso nuovo che prenderà spunto dalle teorie psicanalitiche e dagli psicodrammi di Levi Moreno.
Ancora oggi, il metodo Boal è tenuto in vita da tante realtà teatrali, anche e soprattutto italiane (si veda la compagnia PartecipArte a Roma), e non esaurisce le sue potenzialità, in un’umanità che sempre più necessità di quella presa di coscienza che la conduca a liberarsi dalle continue oppressioni quotidiane.
Francesco Petrella
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