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GENOCIDIO. LA STORIA DI RAPHAEL LEMKIN L’UOMO CHE GENERÒ QUESTA LA PAROLA PER L’UMANITÀ

25 Gennaio 2024
GENOCIDIO. LA STORIA DI RAPHAEL LEMKIN L’UOMO CHE GENERÒ QUESTA LA PAROLA PER L’UMANITÀ

Ogni genocidio è un umanocidio. 

E in fondo, ogni omicidio è un suicidio.
Éric-Emmanuel Schmitt

Dal punto di vista della società moderna 

il genocidio non è né un’anomalia, né una disfunzione. 

Esso dimostra ciò di cui è capace la moderna tendenza 

alla razionalizzazione e all’ingegneria sociale 

se non viene mitigata.

Zygmunt Bauman



Le parole sono a un tempo il seme e la carcassa sbiancata dell’immaginazione. 

Hanno il potere di castrarne il respiro, mortificando in un confine riconoscibile la vertigine giocosa e isterica della danza con l’ignoto. Eppure i confini abitano e valorizzano uno spazio, e nella loro stessa esistenza è inscritta la potenzialità dell’espansione.
La parola determina gli orizzonti del pensabile. Non a caso da tempi immemori l’impoverimento del linguaggio, spesso sotto forma di paradossale riduzione enfatica, rappresenta uno dei più efficaci dispositivi di sedazione e controllo operati dalle classi dirigenti.
Se non esiste una parola per esplorare e circoscrivere una forma di sofferenza, se dirottiamo l’attenzione, l’impegno e soprattutto la cura, quella forma di sofferenza non svanirà. Siamo solo artificialmente indotti a crederlo, svezzati dalla cultura postmoderna dell’invisibilizzazione liquida delle conseguenze. Ma quella sofferenza diverrà larva subliminale, e crescerà.
Urlando senza voce nel buio.

Tante persone nella storia, animate dal fuoco sacro della solidarietà e della speranza, hanno tentato di risignificare il mondo contribuendo attivamente al concepimento di un’alternativa alle storture e all’iniquità.
Se la storia della morale occidentale è la storia di una rivolta perpetua contro la crudeltà umana, ci sono però poche figure più importanti di Raphael Lemkin. E poche le cui conquiste sono state colpevolmente dimenticate dalla collettività.

Chi era e perché lo stiamo rievocando nella rubrica dedicata al potere delle parole?

Nato a Vawkavysk nel 1900 in una famiglia di origine ebraica, fin da bambino Raphael Lemkin si confronta con le asperità di una vita segnata dalla discriminazione.
Per quanto la moderata agiatezza della condizione economica familiare abbia garantito un certo margine di protezione, con lo scoppio del pogrom di Białystok a pochi chilometri di distanza, Raphael ad appena sei anni entra indirettamente in contatto con una efferatezza che non è in grado di comprendere e che infiamma il suo immaginario.
Sviluppa una fascinazione per tutti i racconti e i fatti storici incentrati sulla brutalità, la prevaricazione, l’assoggettamento dei popoli. Inizialmente con la tipica fame morbosa e febbrile della curiosità di una mente giovane, in seguito con un crescente senso di svelamento.

Perché esiste una filigrana rosso sangue di atrocità e dolore che attraversa senza posa tutta la storia dell’umanità?
Questa è la domanda che infestava le sue veglie.
Ed è da questi interrogativi che matura una convinzione, rimasta centrale nel suo pensiero per tutta la vita: la sofferenza degli ebrei nella Polonia orientale, dalla quale era momentaneamente dispensato solo per un privilegio economico, era parte di un modello più ampio di ingiustizia e violenza, un modello sistemico che si estende dall’alba dei tempi in tutto il mondo.

Mosso da una passione e un coinvolgimento sempre più vividi, viene a conoscenza del massacro degli armeni perpetrato dai turchi ottomani. Nello specifico viene folgorato dalla notizia dell’assassinio del gran visir dell’Impero Ottomano commesso da un rivoluzionario armeno, in una forma di giustizia privata.
Si chiede come possa non esistere alcuna legge in grado di inquadrare e condannare l’operato del visir, profondamente convinto che “un crimine non debba essere punito dalle vittime, ma da un tribunale.” Da qui inizia ad alimentare il proposito di creare un sistema di sanzioni per reati ancora indeterminati e non codificati, e per questo intraprende gli studi giuridici.

Anni dopo, quando Hitler sale al potere in Germania nell’Ottobre del 1933 e inizia a promulgare leggi repressive nei confronti degli ebrei tedeschi, Lemkin è ormai un influente giurista di Varsavia a lavoro nell’emergente settore del diritto internazionale. Ed è proprio in questo momento, disgustato dalla gravità della vicenda, che elabora e invia alla Lega delle Nazioni la proposta di rendere l’annichilimento sistematico di gruppi nazionali, sociali e religiosi un crimine internazionale.
I suoi accorati appelli non ottengono però l’effetto sperato e, come un’impotente e inascoltata Cassandra, vede concretizzarsi tutti i suoi timori con l’invasione della Polonia da parte di Hitler.

I genitori di Raphael e più di quaranta membri della sua famiglia vengono sterminati nei campi di concentramento, ma lui riesce a salvarsi ed espatriare precipitosamente negli Stati Uniti.

Arriviamo al cuore pulsante della storia.
Winston Churchill ha definito l’operato dei nazisti “un orrore senza nome”.
Raphael Lemkin stava per trovargliene uno.

Arrivato in America, nel dolore e nella frustrazione più paralizzante, nel 1944 Lemkin pubblica il saggio Il dominio dell’Asse nell’Europa occupata, dedicato alla lucida analisi di tutte le procedure di persecuzione e annichilimento sistematico messe in atto dai nazisti. Proprio in questa trattazione Lemkin utilizza per la prima volta nella storia il termine genocidio, coniato di suo pugno.

Costituita dal prefisso greco genos (tribù, popolo) e dal suffisso latino caedo (l’atto di uccidere), la parola genocidio illustra la metodica e glaciale intenzionalità di cancellazione di un intero gruppo nazionale e dei presupposti basici della sua esistenza. Cultura, religione, istituzioni, costumi, salute, dignità: nessun fondamento viene risparmiato.
L’ esistenza di questo termine è essenziale per distinguere la specificità di questa tecnologia del massacro, un geometrico e mostruosamente razionale dispiegamento di energie distruttrici.

Lemkin ha lottato e patito lo sforzo titanistico di assegnare un nome e un’identità a un male che continuava a imperversare, a consumarsi senza che esistessero gli strumenti critici e retorici per problematizzarlo.
Un male impossibile da intellettualizzare, nella sua impensabile atrocità.

L’essere umano ha infatti da sempre sofferto di una forma invalidante di “cecità di scala”, una inadeguatezza strutturale di percezione e giudizio, inversamente proporzionale alla portata dell’evento.
Più è pervasiva e verticale la violenza, meno riusciamo a concepirne la solidità e a circoscriverla in un quadro nominale. La sentiamo distante e impalpabile, e per questo la rendiamo norma, anestetizzandoci o esibendo un’esile indignazione performativa.
C’è un aforisma erroneamente attribuito a Stalin che riassume con strisciante efficacia questo fenomeno: “Una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica”.

A partire dal Novembre del 1945 si tengono i Processi di Norimberga, nei quali il Tribunale Militare Internazionale accusa alcune tra le massime autorità naziste di crimini contro l’umanità, ma senza che il termine genocidio abbia ancora un peso giuridico. Questo risvolto delude profondamente Lemkin, convinto che l’unico deterrente per un’eventuale reiterazione dell’orrore sia una globale assunzione di responsabilità e un utilizzo corretto del linguaggio.

La crociata di Lemkin assume da questo momento sempre più i connotati di una sfigurante ossessione, e promuovere la convenzione contro il reato internazionale di genocidio diviene totalizzante: lascia gli incarichi all’Università di New York, si trascura, dimentica di pagare l’affitto, viene sfrattato, rimane senza cibo mentre trascorre tutte le sue giornate a scrivere e fare pressioni, contattando personaggi pubblici, giornalisti, diplomatici e persino leader mondiali.

La sua salute si deteriora in maniera sempre più inesorabile.
Outsider tormentato, quasi ascetico, ha scelto la propria distruzione rifiutando consolazioni e certezze che personaggi meno complessi avrebbero facilmente accolto.

Infine il 9 dicembre 1948, sull’onda dell’Olocausto, e in gran parte grazie agli instancabili sforzi di Lemkin stesso, l’Assemblea generale della Nazioni Unite approva la Convenzione per la Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio, riconoscendo il crimine di genocidio e definendolo “una negazione del diritto alla vita di gruppi umani”, di “gruppi razziali, religiosi, politici e altri, che sia stati distrutti in tutto o in parte”.

L’ estenuante lavoro di una vita viene finalmente riconosciuto.

Nell’Agosto del 1959 si accascia alla fermata dell’autobus sulla quarantaduesima strada a New York e muore all’età di 59 anni, senza amici, senza un soldo e perdutamente solo, lasciandosi alle spalle una dimessa stanza in affitto, alcuni vestiti sporchi e un inferno di carte non ordinate.

Viene nominato dieci volte al Nobel per la Pace senza riuscire ad aggiudicarselo.

Niente e nessuno esiste in un vuoto inerte privo di ispirazioni, rimandi e conseguenze.

Questa è la potenza delle parole.
La potenza delle storie.
La storia delle parole.
La storia della vita.
Il cammino profondamente dilaniato, toccante, solitario di un individuo violentato dai fantasmi.
Bruciatosi nell’estasi terminale della speranza.
Che ha tentato, con i propri incubi, di salvare l’umanità.
Senza riuscire a salvarsi da se stesso.

Per la redazione

Giovanni la Bella

Raphael Lemkin. Una vita spesa per la creazione di tutele legali per gruppi etnici, nazionali, religiosi e culturali

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